Sumud: cura e resistenza in Palestina. Intervento di Samah Jabr presso l’Università di Bologna

Pubblichiamo la trascrizione tradotta dell’incontro Sumud: Cura e Resistenza organizzato da Forlí Cittá Aperta e il Collettivo Studentesco per la Palestina Forlí il 18 marzo 2025 presso l’Universita di Bologna.

Recentemente ha scritto del concetto di solastalgia, un termine conosciuto in Occidente nell’ambito della salute mentale e della psicologia ambientale. Tuttavia, lei lo applica alla distruzione della terra in Palestina. Perché la terra è così importante per la salute mentale del popolo palestinese?

Il termine solastalgia da solo non basta a racchiudere la complessità della condizione esistenziale e psicologica vissuta dal popolo palestinese nella propria terra. Piuttosto, può essere inteso come un punto di partenza, un’estensione concettuale che comprende solo una parte di una realtà ben più articolata.

Il popolo palestinese subisce un trauma profondo e continuo: non solo quello provocato dalla violenza fisica diretta, ma anche quello inflitto dalla deumanizzazione sistemica e dalla diffusione di rappresentazioni negative e stereotipi culturali. A questo si aggiunge un dolore meno visibile ma altrettanto lacerante: l’ulteriore dolore legato alla distruzione e alla privazione del legame con la terra. Le popolazioni native comprendono questo dolore in modo particolare, perché vivono una relazione simbiotica con il territorio.

Nel caso della Palestina, si assiste a un processo estremo di sradicamento degli individui dalla loro terra. Sono originaria di Gerusalemme e ho studiato in Francia. Ricordo che, durante i miei anni di studio, ogni volta che tornavo dalla Francia per visitare Gerusalemme, notavo che la città stava cambiando molto rapidamente, diventando sempre meno palestinese e sempre più ebraicizzata. Questa esperienza può essere descritta al meglio dal termine solastalgia, che riflette il dolore psicologico legato alla perdita di un ambiente familiare e alla sua trasformazione.

Tuttavia, ripeto, questo termine non rappresenta una descrizione esaustiva della condizione psicologica dei palestinesi nella loro terra, ma solo di un ulteriore livello di questa distruzione.

Dopo una manifestazione a Forlì, abbiamo piantato un ulivo all’interno del campus universitario, che abbiamo chiamato sumud, un concetto sempre più citato e menzionato, ma che spesso viene tradotto semplicemente in termini di resilienza. Vorremmo chiederle di parlare del significato di questa parola, per trasmetterne la profondità, così come la sua dimensione politica.

Innanzitutto, sumud è un concetto molto antico. È presente nella letteratura palestinese da oltre un secolo, sin dai tempi del mandato britannico in Palestina. Ed è molto più complesso della sola resilienza. La resilienza è un termine relativamente recente nella letteratura sulla salute mentale: esiste da circa quarant’anni, forse poco più. Si tratta di uno stato dell’essere, una condizione interna. Ma sumud è qualcosa di più: è sia uno stato dell’essere che un orientamento all’azione. È fermezza, perseveranza, ma implica anche un’azione critica. È tutto ciò che rafforza la capacità delle persone di rimanere sulla propria terra: la fermezza è parte integrante del sumud.

Il significato del termine ha sia una dimensione individuale che collettiva. Quindi sumud è una resilienza collettiva che tiene conto dell’azione, non solo dello stato dell’essere e del sentimento di forza interiore. Questa è l’essenza di ciò che intendiamo con sumud. L’immagine mentale che più lo rappresenta è quella di un ulivo dalle radici molto profonde.

È importante prestare attenzione quando parliamo di sumud, perché talvolta viene frainteso e interpretato come se indicasse una sorta di resilienza innata del popolo palestinese, tale da renderlo autosufficiente e privo del bisogno di sostegno esterno. Ma non è affatto così. Sumud non deve essere idealizzato, né trasformato in una narrazione romantica che giustifichi l’abbandono o lo sfruttamento dei palestinesi.

Sumud è un concetto significativo che può essere condiviso al di fuori della Palestina e fungere da ispirazione anche per altri popoli che vivono condizioni di oppressione politica. C’è sempre la possibilità di alimentare il sumud del popolo palestinese, se offriamo loro solidarietà, se amplifichiamo la loro azione politica e li aiutiamo a sopravvivere tramite il sostegno umanitario e il supporto politico, affinché possano continuare la loro lotta contro l’oppressione.

Nei suoi scritti colpisce come ciò che, in un contesto occidentale, viene letto come un problema psichiatrico o un disagio mentale, in Palestina assuma un significato diverso e sia spesso sintomo dell’oppressione sistemica del colonialismo. Nel suo lavoro, cerca di integrare le storie cliniche delle persone che assistono con riflessioni sul colonialismo; questa prospettiva complessa e profondamente radicata nella storia richiama il pensiero di Frantz Fanon. Vorremmo quindi chiederle se può spiegare cosa si intende per trauma storico, se Fanon è stato per lei una fonte d’ispirazione e se ci sono altri colleghi o intellettuali che hanno influenzato la sua scrittura.

Il trauma storico è un trauma generato dalla sottomissione esercitata da un potere o da una popolazione dominante su un altro gruppo. Questa forma di oppressione colpisce collettivamente intere comunità, su un arco di tempo prolungato, e si trasmette di generazione in generazione. Questo è esattamente il caso della Palestina.

Stiamo affrontando un trauma coloniale storico che ha un impatto sulla collettività palestinese e si trasmette di generazione in generazione, e che ha deviato il nostro popolo dalle condizioni di vita e dai futuri che avevamo immaginato. Trovo molta ispirazione negli scritti di pensatori, filosofi, teorici e professionisti della salute mentale che hanno operato in contesti di oppressione simili al nostro.

Abbiamo realizzato che Frantz Fanon era in vita durante l’occupazione della Palestina e il massiccio trauma storico di massa che ha portato all’espulsione di due terzi del popolo palestinese dalla propria terra. Fanon viveva in Algeria in quel periodo, e il popolo algerino era molto attivo e solidale nel denunciare quanto stava accadendo in Palestina. È davvero un peccato che nella produzione letteraria di Frantz Fanon non si trovi alcun riferimento diretto alla Palestina. È morto nel 1961 e, fino ad oggi, non sono riuscita a trovare alcun testo in cui egli affronti esplicitamente la questione palestinese.

Nonostante ciò, trovo molta ispirazione nei suoi scritti, in particolare quando critica la patologizzazione dei colonizzati. Ad esempio, ha messo in discussione la diagnosi della cosiddetta “sindrome nordafricana”, criticandone sia la legittimità clinica che l’impiego ideologico come strumento di controllo coloniale. Frantz Fanon non era solo un teorico: era anche un uomo d’azione, un rivoluzionario impegnato direttamente nella lotta contro il colonialismo. Si interessò sia alla condizione dei torturati che a quella dei torturatori. Fanon era un professionista della salute mentale e al tempo stesso uno scrittore impegnato.

Fanon ha anche criticato la borghesia algerina e ha messo in luce una realtà molto dolorosa vissuta dai popoli oppressi: il fratricidio. In questo senso, Franz Fanon è per me una grande fonte di ispirazione. Oltre a Fanon, ci sono molti teorici importanti in America Latina, come Paulo Freire e Ignacio Martín-Baró, le cui riflessioni risultano estremamente rilevanti per comprendere la realtà palestinese.

Devo dire che c’è qualcosa nella realtà politica e nell’oppressione che costringe un professionista della salute mentale e un medico come me, fin dai tempi in cui ero studente di medicina, a pensare al di fuori dei tradizionali modelli occidentali. Ho iniziato a sviluppare questa consapevolezza attraverso l’esperienza diretta, attraverso testimonianze e vissuti personali. Solo successivamente ho incontrato gli scritti di questi autori impegnati in contesti di oppressione, e in qualche modo i loro lavori hanno conferito legittimità e validazione al mio modo di pensare e di agire professionalmente in una situazione di oppressione.

Gli psicoanalisti Laura e Stephen Sheehi scrivono, nel loro Psychoanalysis under Occupation, che le diagnosi prodotte dalla psichiatria occidentale funzionano in Palestina come checkpoint: ostacolano un’esplorazione profonda delle storie individuali e generano alienazione. Nel suo lavoro clinico, ha riscontrato dei limiti nell’applicazione dei criteri diagnostici del manuale statunitense DSM?

Ho sempre criticato la tendenza a patologizzare in modo affrettato le persone. Quando non si riconoscono le pressioni politiche ed economiche che gravano sulle persone, quando non si prendono in considerazione i problemi strutturali e sistemici, finiamo per assumere che il problema risieda nell’individuo stesso. Nella mia pratica e nella mia riflessione teorica, ho sempre incoraggiato i miei colleghi  a fare una distinzione tra i conflitti e le sofferenze interiori e quelli presenti nell’ambiente esterno, invitandoli a considerare attentamente l’interazione tra questi due piani.

Questo fenomeno accade da moltissimi anni. Pensiamo, ad esempio, alla Drapetomania, una diagnosi inventata da uno psichiatra per descrivere gli schiavi che tentavano ripetutamente di fuggire dalla casa del padrone bianco. Secondo gli psichiatri dell’epoca, lo schiavo che tentava la fuga non era mosso dalla ricerca della libertà, ma da una forma di follia, poiché, pur vivendo nel ‘comfort’ della casa del padrone, sceglieva comunque di scappare e morire.

Il regime oppressivo dell’Unione Sovietica diagnosticava ai suoi dissidenti una forma di “schizofrenia lenta” (sluggish schizophrenia). 

In tempi più recenti, in Egitto, un uomo che aveva intenzione di candidarsi alle elezioni contro Hosni Mubarak è stato diagnosticato con schizofrenia e internato in un ospedale psichiatrico.

In Kenya, alcuni membri della resistenza sono sono statə incarceratə, anzi, internatə in ospedali psichiatrici, con la diagnosi di delirio di grandezza, perché volevano prendere parola e parlare delle rivendicazioni del popolo keniota.

Credo quindi che non si tratti di una pratica nuova. In Palestina, però, è particolarmente facile liquidare la rabbia legittima dei palestinesi come aggressività, diagnosticare un bambino che rifiuta il programma scolastico imposto da Israele con un Disturbo Oppositivo Provocatorio, oppure applicare la diagnosi di PTSD ignorando completamente la realtà del trauma storico — come se il nostro trauma avesse un inizio e una fine ben definiti, come se fosse un incidente stradale.

Continuiamo a parlare di PTSD, ma nell’esperienza palestinese non c’è mai un vero “post”. Per questo ho molte riserve sull’applicazione dei criteri diagnostici nella nostra realtà. Collaboro con alcune ONG che si rifiutano di offrire aiuto a una persona palestinese se non riceve prima un codice ICD, cioè della Classificazione Internazionale delle Malattie. Se una persona non ha quel codice, non potrà beneficiare dell’aiuto di quell’organizzazione. In questo modo, la patologizzazione diventa una condizione necessaria per ricevere aiuto. Dobbiamo essere molto attenti a queste pratiche di oggettivazione.

Nella storia della medicina e della psichiatria ci sono numerosi esempi di come queste discipline sono state strumentalizzate per sostenere l’imperialismo e la colonizzazione. L’eugenetica, ad esempio, è stata utilizzata come presunta base scientifica per legittimare la riproduzione di alcuni individui o di alcune popolazioni considerate superiori rispetto ad altre. Si è trattato di un impiego della scienza al servizio del razzismo. Un altro caso è quello della frenologia, una pseudoscienza secondo cui si studiavano i crani raccolti da diverse parti del mondo con l’obiettivo — apparentemente scientifico — di classificare alcune popolazioni come più evolute, più capaci di governare, e altre come intrinsecamente inferiori, destinate ad essere sottomesse e colonizzate.

Il terzo meccanismo o strumento utilizzato è stato il test del quoziente intellettivo standardizzato. La sua interpretazione è stata impiegata per legittimare forme di razzismo e colonizzazione  contro popolazioni messicane, latinoamericane negli Stati Uniti e contro i popoli africani. Per questo dobbiamo essere molto cauti e mantenere un atteggiamento critico nei confronti di quei discorsi che, pur presentandosi come scientifici, tendono a delegittimare il sapere e la saggezza di altri popoli, divenendo strumenti di controllo e dominio.

Un ulteriore esempio di questa dinamica si è verificato durante il genocidio a Gaza, quando un’esperta israeliana di trauma ha descritto la popolazione gazawi come composta da sociopatici, affermando di non sentirsi a proprio agio a vivere a pochi chilometri da loro. Questo tipo di narrazione prepara il terreno al genocidio, giustificando la strage di persone che vengono etichettate come pericolose o patologiche.

Un altro caso recente: i media occidentali e israeliani hanno utilizzato questo stesso meccanismo quando i palestinesi a Gaza hanno partecipato alla Marcia del Ritorno, dove sono stati uccisi in massa. I media internazionali hanno poi descritto questi giovani come “suicidi”. Ora, immaginate che questo stesso discorso venga applicato anche alle persone in sciopero della fame. Se li descrivi come suicidi, in questo modo si sottrae la responsabilità dall’occupazione, da coloro che li uccidono. In altre parole, se sono suicidi e volevano morire, allora Israele non è responsabile della loro morte.

Non so se conoscete questa vicenda, ma recentemente Macron ha rivelato che uno dei leader del Front de Libération National in Algeria, Larbi Ben M’hidi, ucciso 70 anni fa, è stato in realtà assassinato dalla polizia algerina, che ha poi messo in scena una farsa per far credere che si fosse suicidato. Accusare un leader di suicidio rappresenta una strumentalizzazione della sofferenza psichica e dello stigma che circonda la salute mentale, soprattutto in una comunità conservatrice come quella arabo-musulmana. In questo modo, si cerca di scoraggiare la popolazione dal seguire l’esempio del leader, screditandone la memoria e la causa. Questo implica che le persone non dovrebbero seguire il suo esempio, perché quest’ uomo si sarebbe suicidato. Ma la verità è che Al-Arabi bin Mehdi non si è suicidato, così come non si è suicidato Khader Adnan, che è stato lasciato morire durante uno sciopero della fame. Sono stati entrambi uccisi dall’occupazione, dal colonialismo.

Ma dire alla gente che un individuo si è suicidato significa, in un certo senso, patologizzarlo — attribuire il suo gesto a una condizione psicopatologica individuale — e allo stesso tempo trasmettere un messaggio dissuasivo, quasi a dire: “non seguite le sue orme”. Perché il suicidio, come altre condizioni di salute mentale, in una società come la nostra o come quella algerina, porta con sé uno stigma che va oltre la dimensione clinica: è percepito come un peccato, una colpa morale e religiosa, è visto come un peccato. 

Nel suo articolo Sculpting Liberation, fa un paragone tra Marco Cavallo del movimento italiano di anti-psichiatria e il Cavallo di Jenin costruito dai bambini rifugiati palestinesi: c’è una connessione tra la lotta dei pazienti psichiatrici e la liberazione dall’oppressione coloniale?

Sì, penso che la connessione riguardi la sottomissione e la perdita di agency. Un paziente psichiatrico in un’istituzione può perdere la propria agency e subire una forma di sottomissione. 

Allo stesso modo, le persone soggette a oppressione, come quelle in un’istituzione psichiatrica, sono oppresse con il pretesto che hanno perso la loro capacità di autodeterminarsi.

In contesti oppressivi, gli individui vengono deumanizzati, percepiti come subumani, mentre il colonizzatore viene visto come pienamente umano. Così, le persone vengono sottomesse a causa del loro status, da una gerarchia che stabilisce chi ha piena umanità e chi no.

Sotto il peso del trauma storico e dell’oppressione cronica, molte persone finiscono per interiorizzare la deumanizzante che subiscono, arrivando a rinunciare alla propria agency come strategia di sopravvivenza. Perché, se cercano di rivendicare la propria piena umanità di fronte al potere coloniale, vengono percepiti come una minaccia. E, in quanto tali, diventano bersagli fisici. È ciò che accade ai palestinesi. Quando un’altra persona o un gruppo di persone esprime la propria agency e sfida gli occupanti, viene spesso repressa con la violenza, fino all’eliminazione fisica.

Il parallelismo tra la storia di Marco Cavallo e quella del Cavallo di Jenin risiede nell’uso dell’arte come mezzo di espressione e liberazione. Nel caso di Marco Cavallo, la figura del cavallo era più grande dei muri dell’istituzione psichiatrica: li ha simbolicamente abbattuti, e da lì ha iniziato un viaggio itinerante attraverso diversi paesi e città italiane. 

La storia del Cavallo di Jenin è simile: è stato costruito utilizzando i resti di automobili e ambulanze distrutte durante gli attacchi del 2002.  In un contesto tragicamente simile a quello che stiamo osservando oggi a Gaza, anche allora le ambulanze furono deliberatamente prese di mira e completamente distrutte.

I figli dei padri uccisi durante quel massacro hanno costruito un cavallo in memoria di coloro che avevano resistito all’invasione di Jenin. Il “Cavallo di Jenin” divenne presto un simbolo di resistenza e speranza, viaggiando tra diversi villaggi e città, fino a trovare la sua collocazione definitiva nella rotonda principale di Jenin. Purtroppo, le forze israeliane lo presero di mira e lo distrussero. Di fatto, lo hanno confiscato. Oggi, il cavallo non esiste più: è stato rimosso e portato via.

Questa è una differenza significativa rispetto a Marco Cavallo, che è ancora oggi celebrato come simbolo in Italia; mentre i nostri simboli — legati alla salute mentale, all’elaborazione del lutto, alla commemorazione dei padri uccisi — continuano a essere attaccati. Il che ci dice anche quanto sia complesso il processo di guarigione dal trauma.

Nel 2024, ha affrontato il tema dei disturbi alimentari e dei problemi di attenzione a Gaza come conseguenze del genocidio in corso. Quali sono, a suo avviso, le principali sfide psicologiche che oggi affrontano i bambini che vivono in Cisgiordania?

Vorrei condividere alcune osservazioni cliniche. Una delle prime riguarda la diffusione del fenomeno della parentificazione, o genitorializzazione, tra i bambini. Cioè, bambini che si trovano a sostenere un carico che normalmente spetterebbe agli adulti. Questo accade, ad esempio, quando la figura paterna è assente — perché uccisa o incarcerata per ragioni politiche — o quando la madre è in lutto per la perdita del marito o di un altro figlio. In questi contesti, spesso sono i fratelli maggiori a farsi carico della famiglia, assumendo un ruolo genitoriale nei confronti dei fratelli più piccoli.

Questo fenomeno è largamente diffuso in Palestina: è particolarmente drammatico a Gaza, ma si manifesta anche in Cisgiordania e a Gerusalemme. Vorrei sottolineare, inoltre, che raramente riscontro i sintomi classici del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), non sono frequenti. Quello che invece osserviamo è un cambiamento profondo nella visione del mondo da parte delle persone, nel modo in cui percepiscono se stesse, gli altri e il mondo. Per esempio, a un bambino palestinese è stato chiesto cosa volesse fare da grande. Dopo aver riflettuto un attimo, ha risposto: “È improbabile che io diventi adulto, perché in Palestina si muore molto presto.”

Uno studio condotto a Gaza pochi mesi prima del cessate il fuoco ha rilevato che il 96% dei bambini intervistati dichiarava di percepire la propria morte come imminente. Non si tratta di patologizzare, ma di descrivere lo stato mentale collettivo dei giovani e degli adulti in Palestina. Tutti ne sono colpiti. È fondamentale ricordare che questa non è una guerra tra eserciti, ma un’aggressione da parte dell’esercito israeliano altamente equipaggiato contro la popolazione civile palestinese. Nessuno viene risparmiato: né uomini, né donne, né bambini — e i bambini costituiscono una percentuale altissima della popolazione palestinese: circa il 48% a Gaza e il 46% in Cisgiordania e a Gerusalemme. Ed è tra loro che si conta la maggior parte delle vittime del conflitto.

Credo che i bambini siano particolarmente presi di mira. Ad esempio, nel 2014 Israele ha  abbassato la soglia d’età della responsabilità penale rendendo possibile arrestare e processare bambini di appena 12 anni. La legge precedente fissava il limite a 14 anni, ma è stata cambiata per poter perseguitare un bambino di 12 anni. Questo indica chiaramente che i palestinesi non vengono visti come esseri umani, e i bambini palestinesi non vengono visti come bambini. E la mia paura più grande è che smettiamo di vederci come esseri umani, che interiorizziamo lo sguardo dell’occupante nei nostri confronti e cominciamo a sentirci esseri umani di seconda classe, e che i nostri bambini inizino a sentirsi meno bambini.

Per questo credo che introdurre nella vita dei bambini palestinesi esperienze che richiamano l’infanzia sia una forma preziosa di intervento psicologico. È un intervento positivo per la loro salute mentale e per il loro benessere, per ricordare loro che sono bambini.  È un modo per ricordare loro che, nonostante il peso e le responsabilità enormi che spesso portano sulle spalle, sono ancora bambini.

Secondo uno studio pubblicato sulla Clinical Psychology Review, la partecipazione dei palestinesi alla prima intifada, lanciando pietre contro i soldati israeliani, ha favorito un senso di empowerment all’interno della società palestinese. In un contesto di oppressione, c’è un legame tra le pratiche di resistenza e la salute mentale?

Beh, i palestinesi resistono  in molti modi, non soltanto lanciando pietre, e normalmente non lo farebbero se non fossero spinti da un’azione diretta.

Resistono anche quando cantano canzoni nazionali, quando scrivono, quando parlano, quando partecipano intellettualmente all’auto-difesa, quando ricostruiscono le loro case demolite, quando ripiantano i loro ulivi sradicati. La resistenza palestinese si esprime in forme molteplici, in una varietà di azioni quotidiane. Eppure, troppo spesso, il mondo sceglie di vedere i palestinesi solo come lanciatori di pietre, attentatori suicidi o militanti che lanciano razzi.

Spero che il mondo riconoscerà e darà valore a tutte le maniere diverse con cui i palestinesi tentano di resistere. In ogni caso, indipendentemente dal tipo di resistenza, credo che qualsiasi espressione di agency sia una posizione sana, perché il trauma è il disastro dell’impotenza. Il trauma vuole imporre un’impotenza totale. 

Il trauma coloniale vuole uccidere quanti più palestinesi possibile, e rendere i restanti traumatizzati delle ombre incapaci di agire e rispondere al trauma. Perciò, se manteniamo la nostra capacità di rispondere positivamente ad una situazione traumatica, questo è un segno di salute e di salute mentale. 

Vorrei aggiungere un’ultima riflessione a questo proposito. Se riconoscete come valida l’esperienza palestinese, se date solidarietà internazionale, se spingete per la giustizia presso la Corte Internazionale di Giustizia o qualsiasi altra corte ci starete dando supporto e aiuterete i palestinesi a non fare ricorso a opzioni pericolose come lanciare una pietra. Ma quando i palestinesi si sentono soli, si radicalizzano. Quando noi palestinesi sentiamo che la nostra voce viene ascoltata e che le persone stanno amplificando le nostre richieste di libertà, giustizia, fine dell’occupazione, allora continueremo a scegliere opzioni sane e proattive di resistenza. Spero che questo appello venga ascoltato chiaramente.

Quando parla del trauma storico palestinese, dice che non si riferisce a persone singole ma a una ferita dell’intera società. Come possiamo guarire o anche solo accompagnare il processo di cura di una collettività, piuttosto che di un individuo?

Certo, c’è sicuramente una grossa differenza tra l’impatto di un trauma primario, con un inizio e una fine chiari, di natura accidentale ed un trauma storico. Il trauma storico è intenzionale, deliberato: ti colpisce non per quello che hai fatto o per chi sei, ma semplicemente perché appartieni a un determinato gruppo.

Il trauma storico danneggia profondamente il tessuto sociale della comunità presa di mira. Le persone, in risposta, a volte cercano la sopravvivenza individuale; altre volte si assimilano, sottomesse al potere dominante; in altri casi ancora cadono nell’impotenza più totale. E così, l’oppressione interiorizzata si diffonde nella società, minandone coesione, fiducia e identità collettiva.

Le persone, sotto il peso dell’oppressione, possono diventare invidiose e diffidenti, e talvolta questo porta a conflitti interni, tra cui il fratricidio e il femminicidio. Quando non riescono a sfidare il potere verticale oppressivo, tendono a canalizzare questa rabbia e frustrazione  tra di loro, verso i loro stessi compagni, manifestandola in forme distruttive, come ad esempio attraverso conflitti fratricidi.

Di fronte a tutto questo, abbiamo bisogno di un processo di guarigione collettiva. Un processo collettivo di cura che promuova il dialogo tra gli oppressi, che permetta il pensiero critico, che dia spazio al dissenso: anche se hai un’opinione diversa, puoi comunque contribuire alla collettività in modo pluralistico.

Purtroppo, le persone oppresse a volte si focalizzano molto sulla loro resistenza al potere occupante e non prestano attenzione alle strategie di prevenzione di cui hanno bisogno nel loro stesso gruppo, per rendere loro stessi più immuni all’impatto del trauma collettivo. Ancora una volta, una giustizia curativa, la solidarietà, il dialogo interno tra le persone oppresse, il pensiero critico, tutto questo migliorerà l’immunità del popolo oppresso. 

Inoltre, quando le persone scavano a fondo per trovare le loro radici e le loro risorse è importante ricorrere alla cultura, alla spiritualità, che li aiuta ad esprimere solidarietà collettiva, compassione e virtù dentro la loro stessa società. Penso che noi palestinesi non lo sottolineiamo abbastanza e che ci sono stati diversi momenti di fratricidio nella società palestinese.

Vorrei concludere rivelando qualcosa di personale: il mio quarto libro, che sarà pubblicato con Sensibili alle foglie, tratterà del fratricidio e del caso palestinese, e presenterò il problema da diverse prospettive. Auspicabilmente, l’ultimo capitolo proporrà alcune soluzioni per una nazione oppressa e a come ci si possa proteggere dalla lotta interna e dal fratricidio.

Come può la psichiatria aiutare davvero le persone ad affrontare la realtà oppressiva del colonialismo?

Ci sono tanti modi: penso che la psichiatria possa riconoscere i fattori sistemici che hanno un effetto sulla salute mentale, farsene portavoce e documentarli. Quindi, in primo luogo, può riconoscere i fattori sistemici, documentarli e denunciarli. Uno psichiatra che adotta un approccio critico centrato sui diritti umani riguardo alla salute mentale è in grado di farlo. Dipende molto dalla formazione degli psichiatri e di quanto possano fare. Faccio un esempio di una psichiatria che non è basata su un approccio critico centrato sui diritti umani: quando incontriamo una vittima di tortura, ad esempio, cerchiamo di minimizzare i sintomi. E diagnosticheremo il prigioniero politico che è stato vittima di tortura come una persona che soffre di depressione, di schizofrenia, di PTSD. Tutto qui. Cercheremo di minimizzare i sintomi e ci limiteremo a questo.

Un approccio basato sui diritti umani implica, nei riguardi di una vittima di tortura, sia alleviare i suoi sintomi sia il riconoscimento del fatto che la tortura e il sistema che la permette, sta danneggiando il benessere della persona, e cercare di trattarlo e documentarlo.

L’obiettivo, quindi, è quello di curare e, allo stesso tempo, documentare ciò che è accaduto, in modo che, se il paziente desidera utilizzare questa documentazione in sede giudiziaria, possa farlo.

Un approccio critico alla psichiatria basato sui diritti umani si propone di curare, documentare e denunciare la tortura. Gli psichiatri si uniranno ad Amnesty, o ad altre organizzazioni per la tutela dei diritti umani, si faranno portavoce e sfideranno la tortura, porteranno prove della tortura per limitarla. Così, lo psichiatra si sposterà dal lavoro clinico al confronto diretto dell’ingiustizia e si opporrá alla patologia sistemica, quella patologia che all’interno del sistema stesso sta facendo ammalare le persone.

Le altre due domande dal pubblico riguardano le riflessioni sulla psicologia degli oppressori. Dato che la società israeliana ha la propria storia di trauma ed oppressione, si chiedevano come è possibile che non si rendano conto di ciò che sta accadendo? Non sono consapevoli della disumanizzazione e del genocidio che è in corso? E’ stato anche citato l’esempio di Trump e del popolo statunitense. Come si può davvero permettere che avvenga qualcosa come questo e non reagire come ci aspetteremmo?

È una combinazione di dissonanza cognitiva e condizioni favorevoli nel panorama mondiale. Ricevere supporto da paesi e governi che hanno un regime coloniale e imperialista non aiuta gli israeliani a vedere la verità. Voglio essere chiara su una cosa: non credo che gli israeliani stiano facendo ciò che stanno facendo ai palestinesi a causa della loro storia. Non è una messa in scena traumatica quella che stanno facendo. Perché qualunque altro regime coloniale, qualunque altra nazione coloniale che non ha subito l’Olocausto, senza nessun trauma storico, ha fatto la stessa cosa. Devono deumanizzare la popolazione colonizzata per poter godere dei favori e dei privilegi del colonialismo. Devono dire che i palestinesi sono pieni d’odio, che sono subumani, che sono scarafaggi e serpenti. Ne hanno bisogno perché serve alla dissonanza cognitiva. In questo modo, continueranno a trarre vantaggio di una percentuale maggiore di terra e di una percentuale ancora maggiore d’acqua. In fin dei conti, il colonialismo viene fatto per i privilegi che porta, non perché si ha un trauma in sottofondo.

Alcuni dei più efficaci portavoci dei diritti palestinesi sono sopravvissuti dell’Olocausto, come Finkelstein e Chomsky. Sono discendenti di sopravvissuti all’Olocausto. Quindi non è per la storia traumatica che gli israeliani stanno portando avanti la colonizzazione. 

I francesi hanno compiuto atrocità terribili senza alcuna storia traumatica alle spalle. Molte altre nazioni europee hanno colonizzato paesi in Africa come se si stesse allargando il proprio cortile di casa. Era normale colonizzare e non se ne provava vergogna. 

Purtroppo negli ultimi due anni, dal 7 Ottobre 2023, abbiamo osservato dei segnali nefasti nella politica. Prima abbiamo constatato che la dichiarazione universale dei diritti umani non si applica a tutti e che, al contrario, è diventata inapplicabile, il diritto internazionale viene insultato e umiliato. 

Abbiamo visto l’attitudine dei governi europei verso la Corte Internazionale di Giustizia e la sua sentenza riguardo l’arresto dei leader israeliani. Ogni paese europeo sta cercando un modo per aggirare questa sentenza.

La terza osservazione inquietante è l’orribile discorso che l’amministrazione americana sta portando avanti riguardo alla possibilità di trasformare Gaza in una ‘riviera del Medio Oriente’, costruita sulle tombe, sui corpi appena sepolti della sua gente. 

Questa narrazione poteva essere accettata duecento o trecento anni fa, quando era accettabile che gli occidentali e gli europei sfruttassero economicamente un paese come se fosse il proprio cortile di casa. Ma sentire questo discorso adesso e vederlo diventare prominente e diffuso dai media mainstream mi fa pensare che non solo i palestinesi sono in pericolo, ma tutta l’umanità lo è.

Traduzione a cura di Brigata Basaglia.