
Foto scattata a Santiago de Chile durante l’ Estallido social, marzo 2020
di Francesca Daidone C.
“Dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale.”
(Mark Fisher, Realismo Capitalista)
Parlare di pace oggi è doloroso e difficile.
Cercherò di farlo in modo coerente nella mia duplice veste di psicoanalista e persona impegnata politicamente.
Non posso pensare la pace senza considerare insieme la dimensione inconscia, quella sociale e quella politica.
E credo che, per uscire dalla violenza che ci attraversa in questi tempi molto difficili, serva prendere parola con più coraggio e sia necessario un coinvolgimento personale più profondo e attivo da parte di tutte e tutti noi.
Cos’è la pace? Quanto stride questa parola oggi? Quando pensiamo alla parola pace, ci viene naturale figurarcela come assenza di guerra, un luogo ideale in cui si possa vivere in armonia e in cui non esistano conflitti e violenza.
Ma se proviamo a guardare la pace dal punto di vista psicoanalitico, la prospettiva cambia radicalmente. La psicoanalisi ci insegna che il conflitto di per sé non è una malattia da guarire, né una parentesi eccezionale della vita, ma la condizione stessa che struttura l’individuo e la società.
La psicoanalisi, a partire proprio da Freud, offre una lettura della storia come processo segnato da conflitti, rimozioni, ritorni. L’elaborazione freudiana consente di pensare la soggettività come intrinsecamente storica, poiché l’essere umano si costituisce attraverso il conflitto. La legge, la religione, la civiltà non sono dati naturali, ma costruzioni storiche che emergono dal modo in cui gli uomini elaborano collettivamente pulsioni e istanze. L’individuo non è solo un soggetto intrapsichico, ma un essere che porta dentro di sé la traccia della storia, e la storia stessa, a sua volta, è intessuta di dinamiche psichiche. Non esiste quindi un’unità compatta, ma un campo di tensioni. Il conflitto non è un accidente né un’anomalia, ma una dimensione strutturale della psiche: ciò che definisce in modo costitutivo l’individuo. Dentro di noi convivono desideri, divieti, spinte vitali e pulsioni distruttive. Per questo parlare di pace come fine del conflitto è un errore concettuale: significherebbe immaginare una psiche senza tensioni, senza desideri, in fondo senza vita. La psicoanalisi non promette quindi una pace immaginaria, ma offre una chiave per leggere il conflitto e renderlo occasione di cambiamento e creatività perché non si limita a diagnosticare una sofferenza, ma apre lo spazio di una trasformazione. L’individuo, attraverso il lavoro analitico, può rielaborare i propri conflitti, riconfigurare i propri rapporti con il desiderio, e quindi modificare le condizioni stesse della sua esperienza. Tale possibilità si radica nel nesso indissolubile tra conflitto psichico e contesto sociale: l’inconscio non è un ‘fuori dalla storia’, ma un luogo in cui la storia stessa si iscrive e prende forma.
Nel 1932 Einstein scrive a Freud chiedendo se sia possibile liberare l’umanità dalla ‘fatalità della guerra’. Intuisce che non bastano assetti giuridici, a sabotare i progetti di pace intervengono forti fattori psicologici che trascinano le masse verso il furore e l’autodistruzione. Freud risponde con realismo: i conflitti d’interesse, storicamente, si decidono con la violenza, il diritto nasce come violenza della comunità che si sostituisce a quella del singolo. Ma indica una possibile via d’uscita: se l’aggressività non è eliminabile, può essere legata, trasformata. L’antagonista della distruttività è l’Eros e tutto ciò che crea legami tra gli esseri umani, amicizie, identificazioni, ideali comuni, diventa un antidoto contro la guerra.
Sappiamo però che l’illusione di una pace definitiva, di una pace perpetua, ha spesso finito per legittimare guerre presentate come necessarie: la guerra stessa diventa così strumento della pace, e nel nome della pace si accetta la violenza degli Stati, delle forze armate, delle economie di guerra.
Si esporta ‘democrazia’ con le bombe intelligenti.
Cito alcuni autori postfreudiani che ci possono aiutare a leggere queste dinamiche. Melanie Klein ci offre degli strumenti di lettura analitica utili ad affrontare la tendenza alla furia distruttrice e alla incapacità di pensare tipiche del pensiero in tempi di guerra. Mostra che, quando è in preda all’angoscia, la mente scinde il mondo in buono/cattivo, amico/nemico, proprio la posizione schizoparanoide che vediamo all’opera nelle guerre e nelle polarizzazioni. Adesso accentuate ancora di più dall’uso di massa delle piattaforme commerciali dei social network. La Klein spiega come la vera maturazione consista nel passaggio alla posizione depressiva: riconoscere cioè l’altro come intero, tollerare l’ambivalenza, prendersi carico del dolore che deriva dal legame. È qui che il conflitto diventa etico.
Winnicott e Bion hanno aggiunto un’altra dimensione: il ruolo dell’ambiente. Senza contesti capaci di contenere le angosce collettive, il conflitto si agisce come violenza distruttiva. Così come il bambino ha bisogno di una madre “sufficientemente buona” che regga le sue angosce primitive, anche le società hanno bisogno di contenitori che sappiano dare forma alla paura, trasformarla in pensiero, in spazi di parola ed elaborazione condivisa. È necessario trasformare emozioni grezze in pensieri condivisibili. Bion ci dice anche che i gruppi funzionano come contenitori delle angosce individuali, ma quando prevale un “assunto di base” irrazionale, possono scivolare in condotte distruttive. Leader carismatici o ideologie possono attivare fantasie collettive che, nell’individuo, sarebbero considerate psicotiche.
Vorrei qui fare un inciso sulla questione della violenza. Troppo spesso ridotta a un’alternativa moralistica: violenza in contrapposizione a non-violenza. Questo è un dibattito che spesso schiaccia e mistifica le questioni.
L’odio per l’ingiustizia non è una patologia, ma un segnale etico: indica un limite violato, difende il Sé ferito, rompe l’anestesia dell’alienazione. Il punto non è ‘non odiare’, ma come orientare quell’energia. Il criterio, psichico ed etico, non è l’assenza di forza, ma che cosa una forza distrugge e che cosa rende possibile. Non ogni rottura ha lo stesso senso: una cosa è l’attacco a dispositivi e infrastrutture che producono oppressione e morte, altra è la lesione dei corpi e della vita. A questo proposito a Genova 2001 dopo l’uccisione di Carlo Giuliani e la mannaia repressiva scatenata sulla testa di pochi scrivevamo su un muro “Vale più una vetrina rotta di una vita spezzata”.
Il giudizio mainstream, veicolato dai massmedia tutt’altro che indipendenti, sull’odio e sulla violenza attribuiti spesso alle contestazioni sociali, nella società del controllo è un giudizio ipocrita: serve solo a mantenere il monopolio della violenza. Perché, e questo ce lo spiega molto bene Elsa Dorlin, professoressa di Filosofia all’università di Parigi, lo Stato e gli eserciti nazionali, o al soldo delle multinazionali, detengono il monopolio della violenza e la legittimità di agirla per legge. Il sistema democratico, che si erge come espressione massima del compimento della natura umana, pone al di là del confine legittimo e umano il nemico, la barbarie, che negli ultimi decenni è rappresentato dalla figura del terrorista, vero e proprio paradigma dell’Altro, estraneo da sé e dalla propria cerchia, categoria minacciosa del disumano come ci spiegano Benasayag e Del Rey. Quindi il confine moralistico tra “violenza” e “nonviolenza” è spesso l’argomento con cui il potere disarma il dissenso e tiene ‘buone’ le classi subalterne, ne delegittima ogni protesta, mentre l’ordine armato continua a mantenersi grazie a interessi e profitti, che sappiamo ormai benissimo non avere niente a che vedere con il bene comune o un fantomatico progresso.
Fanon, parlando di colonialismo, mostra che esiste una violenza che ha una funzione catartica e liberante, e restituisce dignità ai soggetti colonizzati. Non si tratta, per Fanon, di cieca distruttività, ma di un passaggio necessario alla liberazione e alla ricostruzione di sé e della comunità.
È essenziale tuttavia vigilare sul rischio che l’odio si trasformi in disumanizzazione dell’altro e che il ciclo della violenza si riproduca. Ma è proprio questa la differenza tra una violenza distruttiva, senza senso, o con l’obiettivo ben preciso di annientamento volto a reprimere, a conquistare potere e risorse, a difendere privilegi e proprietà privata, e un’organizzazione e una trasformazione collettiva della collera, perché diventi giustizia, azione capace di incidere realmente sul presente.
Quindi sì simbolizzare e organizzare la rabbia in senso collettivo e nello stesso tempo sentire di poter incidere realmente con le proprie azioni e portare a un cambiamento, una trasformazione in senso evolutivo. La forza sociale è sempre stata motore di cambiamento anche nelle democrazie occidentali.
Nel sistema neoliberale in cui Stati, governi e complessi industrial-militari esercitano una violenza strutturale e istituita, attraverso espropriazione, sfruttamento, razzializzazione, impunità, la sola parola rischia di essere assorbita dal dispositivo di pacificazione. La prassi torna quindi centrale: ridare dignità alle azioni, anche quando sono di rottura. Ogni forma di agency, in questo senso, rappresenta un antidoto al trauma, che cerca di imporre impotenza e silenzio.
Anche perché quando le istituzioni della pace formale, a cominciare dall’ONU, continuano a fallire, la legge internazionale è applicata in modo selettivo e coloniale e chi dovrebbero farla rispettare si mostra impotente, si capisce perché i movimenti di protesta si rivendichino l’azione. In termini psicoanalitici, le organizzazioni sovranazionali sono contenitori bucati: assorbono simbolicamente l’angoscia con risoluzioni e dichiarazioni, ma non la trasformano in atti efficaci.
Non basta quindi invocare istituzioni ‘pacificatrici’ che spesso diventano addirittura strumenti di controllo, finendo per espellere il conflitto e radicalizzarlo. È il rischio della “società della trasparenza”, dove tutto deve essere visibile e conforme. In un tale sistema il conflitto non è più accettato come parte della vita sociale, ma trattato come un’anomalia; chi dissente non è riconosciuto come interlocutore politico, ma come deviante da correggere o eliminare. Si parla tanto di maranza come componenete giovanile di terza e quarta generazione, fuori controllo, violenta. Ridurre il discorso della rabbia legettima di questi ragazzi a questione di violenza e controllo sociale significa reprimere il confronto e spingere volutamente sempre più ai margini questo soggetto collettivo così importante e vitale.
Contenere non significa reprimere o negare: un contenitore adeguato non cancella l’alterità, la trasforma in esperienza condivisa. L’alternativa non è tra pace e conflitto, ma tra conflitto rimosso, che ritorna come violenza cieca, e conflitto riconosciuto ed elaborato.
Come categoria ‘psi’ abbiamo una responsabilità enorme: creare spazi di pensiero e confronto. Servono pratiche concrete che coinvolgano davvero chi oggi è escluso, permettendo di discutere apertamente di paure, desideri e bisogni. Invece di selezionare e normalizzare, dovremmo aprirci alle voci marginali. Solo così può nascere una comunità nuova, fondata su condivisione di saperi e immaginazione.
È impossibile parlare di pace senza affrontare le condizioni materiali della vita. Marx ci ricorda che la sofferenza nasce dalla mancanza di diritti basilari: casa, lavoro, cibo adeguato, uguaglianza sociale. Ogni concentrazione di ricchezza e potere genera frustrazione e rabbia. Senza redistribuzione, la pace rischia di ridursi a tregua armata tra inclusi ed esclusi. La psicoanalisi ci insegna a trasformare le pulsioni distruttive, il marxismo ci ricorda che quelle pulsioni trovano forma dentro rapporti sociali concreti.
Come quindi mantenere uno sguardo vigile e critico anche noi psicologhe e psicologi?
Come ci spiega bene la dottoressa Amati Sas, rifacendosi a Bleger e Aulagnier, quando prevale l’alienazione, cioè la trasformazione subdola del pensiero e degli affetti operata dall’esterno, si perde la capacità critica, si smette di interrogarsi, ci si adatta senza rendersene conto. Questo processo non riguarda solo i rapporti personali, ma può estendersi a interi contesti culturali o sociali, che impongono modelli interiorizzati inconsciamente. Nei casi di violenza sociale o politica, ciò si traduce in un conformismo inconsapevole: ci si abitua all’ingiustizia, si rinuncia al giudizio critico e si finisce per adattarsi a qualunque forma di violenza con cui si ha a che fare rendendola ovvia. Penso alla presenza dei CPR in tante città italiane.
Quindi la funzione della psicoanalisi e delle altre discipline che si occupano di salute mentale, oltre la stanza di terapia e nel discorso collettivo, potrebbe essere quella di fornire un terreno solido e sicuro non solo per contenere paura e angoscia ma anche per dare possibilità di trasformazione e visioni nuove. Ma per farlo penso sia necessario mantenere un costante impegno etico che contrasti il rischio di insensibilità e indifferenza, di diniego e collusione inconscia con quegli apparati repressivi e antidemocratici sempre più pervasivi, e che ci faccia uscire dagli studi professionali, perché la cura non può limitarsi alla stanza d’analisi. Lo sforzo richiesto è rimanere nel conflitto, tra violenza e desiderio di vita, invece di rassegnarci e appiattirci in una dimensione ambigua e indifferenziata. Amati Sas parla di ambiguità, quella che deposita fiducia e bisogno di sicurezza in governi e istituzioni incapaci di garantire pace e armonia. Istituzioni democratiche che forse, per una parte consistente dell’umanità, non hanno mai funzionato davvero come tali.
Nel nostro mestiere siamo tenuti a nominare le cose, dare senso e peso alle parole, cercare insieme ai nostri pazienti i significati di ciò che viene vissuto. Riconoscere e nominare le violenze, gli effetti che hanno, e il contesto in cui accadono è un passaggio terapeutico imprescindibile. Confondere l’etica dello psicoanalista con le sole regole del setting significherebbe tradire il mandato della psicoanalisi. In tempi di guerra non possiamo riferirci solo al trauma passato e alla dimensione intrapsichica: la cosiddetta ‘neutralità’ rischia di legittimare lo status quo traumatico.
Ci sono tanti scritti in cui viene spiegato come le ferite storiche, dovute a secoli di colonialismo e oppressione, alimentino mobilitazioni e ostilità transgenerazionali. Sappiamo che per riparare le ferite è necessario ritessere le narrazioni collettive: riconoscere i torti avvenuti, integrare le memorie in conflitto. Sappiamo anche però che molte di queste condizioni di oppressione sono ancora in essere.
Nelle zone di conflitto permanente, come non citare la storia della Palestina, ma anche di molte zone del Medio Oriente, come il Kurdistan, della America Latina, dell’Africa, la salute mentale non può essere separata dal contesto di violenza in cui sono immerse le persone. Chiedere alle persone di adattarsi interiormente a un contesto disumanizzante significa negare la realtà.
Samah Jabr, straordinaria psichiatra palestinese, ci spiega che in Palestina non c’è un ‘dopo il trauma’: il trauma si rinnova ogni giorno, accumulandosi e trasmettendosi tra generazioni. E che quindi le categorie della psichiatria occidentale che noi applichiamo quando andiamo in quei contesti non bastano. In quel caso non si tratta di ferite individuali o eventi isolati, ma di una vita intera segnata da un territorio sotto occupazione. Parlare di ‘disturbo mentale’ è fuorviante: ansia e depressione sono reazioni comprensibili a un’ingiustizia permanente. Molti programmi internazionali insistono su diagnosi e psicofarmaci, puntando a un equilibrio interiore e individuale che in realtà non può esserci a causa di condizioni esterne deprivanti e ingiuste.
La dottoressa Jabr parla di ṣumūd un concetto palestinese antico, che ha un significato più ampio della nostra resilienza. Non è solo forza interiore, ma anche orientamento all’azione, radicato nella collettività e simboleggiato dall’ulivo con le sue radici profonde. Significa in arabo “fermezza, resistenza, perseveranza”. Una forma di resistenza quotidiana che si esprime nel continuare a vivere, studiare, coltivare la propria terra, creare, celebrare la propria cultura e ricostruire ciò che viene distrutto. È insieme atto politico, etico e spirituale: un modo di trasformare la vulnerabilità in dignità e la sofferenza in legami comunitari.
La vera cura, non sta solo nell’aiuto umanitario, ma nel riconoscimento del dolore e nell’ottenimento di giustizia. Perché la giustizia ha un effetto terapeutico più profondo di qualsiasi farmaco o terapia. Parlare di pace astratta non basta: la pace deve essere giusta, fondata su memoria e solidarietà.
Alla luce di tutto questo, cos’è la pace?
Forse non è un traguardo da raggiungere una volta per tutte, né un’etichetta neutra. È un processo, un esercizio quotidiano. La storia non procede per linee ascendenti verso un progresso garantito: conosce cicli, ripetizioni e discontinuità. La vera emancipazione non si attende in un futuro ideale, ma si costruisce qui e ora, nel dispiegarsi dell’agire e delle relazioni. Richiede contesti comunitari capaci costruire una rete di simboli e pratiche che trasformino l’aggressività in cura, responsabilità e progetto, senza chiedere alle persone di adattarsi a ciò che è ingiusto e disumano. Richiede redistribuzione e riparazione. Richiede memoria e condivisione delle scelte, giustizia, cura, liberazione del desiderio, dignità. Con queste parole, e con le azioni che le rendono vere e non parole vuote e senza senso, una politica realmente democratica può farsi, finalmente, pace viva e presente.
‘Nessuna giustizia, nessuna pace’ scrivevamo sui muri negli anni ‘90, slogan che presuppone qualcosa di profondamente vero che riguarda sia la storia degli individui che quella dei popoli.
Bibliografia
Amati Sas, S., Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale, FrancoAngeli, Milano, 2020
Aulagnier, P., I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, La Biblioteca by ASPPI, Milano, 2002
Benasayag, M.; Del Rey, A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2008
Bion, W. R., Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma, 2009
Bion, W. R., Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 2018
Bleger, J., Simbiosi e ambiguità. Studio psicoanalitico, Armando Editore, Roma, 2018
Dorlin, E., Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, Roma, 2020
Fanon, F., I dannati della terra, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007
Fisher, M., Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018
Freud, S.; Einstein, A., Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino, 1997
Han, B.-C., La società della trasparenza, nottetempo, Roma, 2014
Jabr, S., Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, Sensibili alle Foglie, Roma, 2019
Jabr, S., Sumud. Resistere all’oppressione, Sensibili alle Foglie, Roma, 2021
Klein, M., Invidia e gratitudine, Giunti Editore, Firenze, 2012
Klein, M., La psicoanalisi dei bambini. Nuova edizione rivista e ampliata, Giunti Editore, Firenze, 2014
Marx, K., Il Capitale. Libro I, Editori Riuniti, Roma, 2017
Winnicott, D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 2015
Winnicott, D. W., Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 2020

Foto scattata a Santiago de Chile durante l’ Estallido social, marzo 2020









