Nessuna giustizia, nessuna pace: dal trauma all’azione collettiva. Una lettura psicoanalitica del conflitto

Foto scattata a Santiago de Chile durante l’ Estallido social, marzo 2020


di Francesca Daidone C.

“Dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale.”
(Mark Fisher, Realismo Capitalista)

Parlare di pace oggi è doloroso e difficile.
Cercherò di farlo in modo coerente nella mia duplice veste di psicoanalista e persona impegnata politicamente.
Non posso pensare la pace senza considerare insieme la dimensione inconscia, quella sociale e quella politica.
E credo che, per uscire dalla violenza che ci attraversa in questi tempi molto difficili, serva prendere parola con più coraggio e sia necessario un coinvolgimento personale più profondo e attivo da parte di tutte e tutti noi.


Cos’è la pace? Quanto stride questa parola oggi? Quando pensiamo alla parola pace, ci viene naturale figurarcela come assenza di guerra, un luogo ideale in cui si possa vivere in armonia e in cui non esistano conflitti e violenza.
Ma se proviamo a guardare la pace dal punto di vista psicoanalitico, la prospettiva cambia radicalmente. La psicoanalisi ci insegna che il conflitto di per sé non è una malattia da guarire, né una parentesi eccezionale della vita, ma la condizione stessa che struttura l’individuo e la società.
La psicoanalisi, a partire proprio da Freud, offre una lettura della storia come processo segnato da conflitti, rimozioni, ritorni. L’elaborazione freudiana consente di pensare la soggettività come intrinsecamente storica, poiché l’essere umano si costituisce attraverso il conflitto. La legge, la religione, la civiltà non sono dati naturali, ma costruzioni storiche che emergono dal modo in cui gli uomini elaborano collettivamente pulsioni e istanze. L’individuo non è solo un soggetto intrapsichico, ma un essere che porta dentro di sé la traccia della storia, e la storia stessa, a sua volta, è intessuta di dinamiche psichiche. Non esiste quindi un’unità compatta, ma un campo di tensioni. Il conflitto non è un accidente né un’anomalia, ma una dimensione strutturale della psiche: ciò che definisce in modo costitutivo l’individuo. Dentro di noi convivono desideri, divieti, spinte vitali e pulsioni distruttive. Per questo parlare di pace come fine del conflitto è un errore concettuale: significherebbe immaginare una psiche senza tensioni, senza desideri, in fondo senza vita. La psicoanalisi non promette quindi una pace immaginaria, ma offre una chiave per leggere il conflitto e renderlo occasione di cambiamento e creatività perché non si limita a diagnosticare una sofferenza, ma apre lo spazio di una trasformazione. L’individuo, attraverso il lavoro analitico, può rielaborare i propri conflitti, riconfigurare i propri rapporti con il desiderio, e quindi modificare le condizioni stesse della sua esperienza. Tale possibilità si radica nel nesso indissolubile tra conflitto psichico e contesto sociale: l’inconscio non è un ‘fuori dalla storia’, ma un luogo in cui la storia stessa si iscrive e prende forma.


Nel 1932 Einstein scrive a Freud chiedendo se sia possibile liberare l’umanità dalla ‘fatalità della guerra’. Intuisce che non bastano assetti giuridici, a sabotare i progetti di pace intervengono forti fattori psicologici che trascinano le masse verso il furore e l’autodistruzione. Freud risponde con realismo: i conflitti d’interesse, storicamente, si decidono con la violenza, il diritto nasce come violenza della comunità che si sostituisce a quella del singolo. Ma indica una possibile via d’uscita: se l’aggressività non è eliminabile, può essere legata, trasformata. L’antagonista della distruttività è l’Eros e tutto ciò che crea legami tra gli esseri umani, amicizie, identificazioni, ideali comuni, diventa un antidoto contro la guerra.
Sappiamo però che l’illusione di una pace definitiva, di una pace perpetua, ha spesso finito per legittimare guerre presentate come necessarie: la guerra stessa diventa così strumento della pace, e nel nome della pace si accetta la violenza degli Stati, delle forze armate, delle economie di guerra.
Si esporta ‘democrazia’ con le bombe intelligenti.


Cito alcuni autori postfreudiani che ci possono aiutare a leggere queste dinamiche. Melanie Klein ci offre degli strumenti di lettura analitica utili ad affrontare la tendenza alla furia distruttrice e alla incapacità di pensare tipiche del pensiero in tempi di guerra. Mostra che, quando è in preda all’angoscia, la mente scinde il mondo in buono/cattivo, amico/nemico, proprio la posizione schizoparanoide che vediamo all’opera nelle guerre e nelle polarizzazioni. Adesso accentuate ancora di più dall’uso di massa delle piattaforme commerciali dei social network. La Klein spiega come la vera maturazione consista nel passaggio alla posizione depressiva: riconoscere cioè l’altro come intero, tollerare l’ambivalenza, prendersi carico del dolore che deriva dal legame. È qui che il conflitto diventa etico.
Winnicott e Bion hanno aggiunto un’altra dimensione: il ruolo dell’ambiente. Senza contesti capaci di contenere le angosce collettive, il conflitto si agisce come violenza distruttiva. Così come il bambino ha bisogno di una madre “sufficientemente buona” che regga le sue angosce primitive, anche le società hanno bisogno di contenitori che sappiano dare forma alla paura, trasformarla in pensiero, in spazi di parola ed elaborazione condivisa. È necessario trasformare emozioni grezze in pensieri condivisibili. Bion ci dice anche che i gruppi funzionano come contenitori delle angosce individuali, ma quando prevale un “assunto di base” irrazionale, possono scivolare in condotte distruttive. Leader carismatici o ideologie possono attivare fantasie collettive che, nell’individuo, sarebbero considerate psicotiche.


Vorrei qui fare un inciso sulla questione della violenza. Troppo spesso ridotta a un’alternativa moralistica: violenza in contrapposizione a non-violenza. Questo è un dibattito che spesso schiaccia e mistifica le questioni.
L’odio per l’ingiustizia non è una patologia, ma un segnale etico: indica un limite violato, difende il Sé ferito, rompe l’anestesia dell’alienazione. Il punto non è ‘non odiare’, ma come orientare quell’energia. Il criterio, psichico ed etico, non è l’assenza di forza, ma che cosa una forza distrugge e che cosa rende possibile. Non ogni rottura ha lo stesso senso: una cosa è l’attacco a dispositivi e infrastrutture che producono oppressione e morte, altra è la lesione dei corpi e della vita. A questo proposito a Genova 2001 dopo l’uccisione di Carlo Giuliani e la mannaia repressiva scatenata sulla testa di pochi scrivevamo su un muro “Vale più una vetrina rotta di una vita spezzata”.
Il giudizio mainstream, veicolato dai massmedia tutt’altro che indipendenti, sull’odio e sulla violenza attribuiti spesso alle contestazioni sociali, nella società del controllo è un giudizio ipocrita: serve solo a mantenere il monopolio della violenza. Perché, e questo ce lo spiega molto bene Elsa Dorlin, professoressa di Filosofia all’università di Parigi, lo Stato e gli eserciti nazionali, o al soldo delle multinazionali, detengono il monopolio della violenza e la legittimità di agirla per legge. Il sistema democratico, che si erge come espressione massima del compimento della natura umana, pone al di là del confine legittimo e umano il nemico, la barbarie, che negli ultimi decenni è rappresentato dalla figura del terrorista, vero e proprio paradigma dell’Altro, estraneo da sé e dalla propria cerchia, categoria minacciosa del disumano come ci spiegano Benasayag e Del Rey. Quindi il confine moralistico tra “violenza” e “nonviolenza” è spesso l’argomento con cui il potere disarma il dissenso e tiene ‘buone’ le classi subalterne, ne delegittima ogni protesta, mentre l’ordine armato continua a mantenersi grazie a interessi e profitti, che sappiamo ormai benissimo non avere niente a che vedere con il bene comune o un fantomatico progresso.


Fanon, parlando di colonialismo, mostra che esiste una violenza che ha una funzione catartica e liberante, e restituisce dignità ai soggetti colonizzati. Non si tratta, per Fanon, di cieca distruttività, ma di un passaggio necessario alla liberazione e alla ricostruzione di sé e della comunità.
È essenziale tuttavia vigilare sul rischio che l’odio si trasformi in disumanizzazione dell’altro e che il ciclo della violenza si riproduca. Ma è proprio questa la differenza tra una violenza distruttiva, senza senso, o con l’obiettivo ben preciso di annientamento volto a reprimere, a conquistare potere e risorse, a difendere privilegi e proprietà privata, e un’organizzazione e una trasformazione collettiva della collera, perché diventi giustizia, azione capace di incidere realmente sul presente.
Quindi sì simbolizzare e organizzare la rabbia in senso collettivo e nello stesso tempo sentire di poter incidere realmente con le proprie azioni e portare a un cambiamento, una trasformazione in senso evolutivo. La forza sociale è sempre stata motore di cambiamento anche nelle democrazie occidentali.


Nel sistema neoliberale in cui Stati, governi e complessi industrial-militari esercitano una violenza strutturale e istituita, attraverso espropriazione, sfruttamento, razzializzazione, impunità, la sola parola rischia di essere assorbita dal dispositivo di pacificazione. La prassi torna quindi centrale: ridare dignità alle azioni, anche quando sono di rottura. Ogni forma di agency, in questo senso, rappresenta un antidoto al trauma, che cerca di imporre impotenza e silenzio.
Anche perché quando le istituzioni della pace formale, a cominciare dall’ONU, continuano a fallire, la legge internazionale è applicata in modo selettivo e coloniale e chi dovrebbero farla rispettare si mostra impotente, si capisce perché i movimenti di protesta si rivendichino l’azione. In termini psicoanalitici, le organizzazioni sovranazionali sono contenitori bucati: assorbono simbolicamente l’angoscia con risoluzioni e dichiarazioni, ma non la trasformano in atti efficaci.
Non basta quindi invocare istituzioni ‘pacificatrici’ che spesso diventano addirittura strumenti di controllo, finendo per espellere il conflitto e radicalizzarlo. È il rischio della “società della trasparenza”, dove tutto deve essere visibile e conforme. In un tale sistema il conflitto non è più accettato come parte della vita sociale, ma trattato come un’anomalia; chi dissente non è riconosciuto come interlocutore politico, ma come deviante da correggere o eliminare. Si parla tanto di maranza come componenete giovanile di terza e quarta generazione, fuori controllo, violenta. Ridurre il discorso della rabbia legettima di questi ragazzi a questione di violenza e controllo sociale significa reprimere il confronto e spingere volutamente sempre più ai margini questo soggetto collettivo così importante e vitale.


Contenere non significa reprimere o negare: un contenitore adeguato non cancella l’alterità, la trasforma in esperienza condivisa. L’alternativa non è tra pace e conflitto, ma tra conflitto rimosso, che ritorna come violenza cieca, e conflitto riconosciuto ed elaborato.
Come categoria ‘psi’ abbiamo una responsabilità enorme: creare spazi di pensiero e confronto. Servono pratiche concrete che coinvolgano davvero chi oggi è escluso, permettendo di discutere apertamente di paure, desideri e bisogni. Invece di selezionare e normalizzare, dovremmo aprirci alle voci marginali. Solo così può nascere una comunità nuova, fondata su condivisione di saperi e immaginazione.
È impossibile parlare di pace senza affrontare le condizioni materiali della vita. Marx ci ricorda che la sofferenza nasce dalla mancanza di diritti basilari: casa, lavoro, cibo adeguato, uguaglianza sociale. Ogni concentrazione di ricchezza e potere genera frustrazione e rabbia. Senza redistribuzione, la pace rischia di ridursi a tregua armata tra inclusi ed esclusi. La psicoanalisi ci insegna a trasformare le pulsioni distruttive, il marxismo ci ricorda che quelle pulsioni trovano forma dentro rapporti sociali concreti.


Come quindi mantenere uno sguardo vigile e critico anche noi psicologhe e psicologi?
Come ci spiega bene la dottoressa Amati Sas, rifacendosi a Bleger e Aulagnier, quando prevale l’alienazione, cioè la trasformazione subdola del pensiero e degli affetti operata dall’esterno, si perde la capacità critica, si smette di interrogarsi, ci si adatta senza rendersene conto. Questo processo non riguarda solo i rapporti personali, ma può estendersi a interi contesti culturali o sociali, che impongono modelli interiorizzati inconsciamente. Nei casi di violenza sociale o politica, ciò si traduce in un conformismo inconsapevole: ci si abitua all’ingiustizia, si rinuncia al giudizio critico e si finisce per adattarsi a qualunque forma di violenza con cui si ha a che fare rendendola ovvia. Penso alla presenza dei CPR in tante città italiane.
Quindi la funzione della psicoanalisi e delle altre discipline che si occupano di salute mentale, oltre la stanza di terapia e nel discorso collettivo, potrebbe essere quella di fornire un terreno solido e sicuro non solo per contenere paura e angoscia ma anche per dare possibilità di trasformazione e visioni nuove. Ma per farlo penso sia necessario mantenere un costante impegno etico che contrasti il rischio di insensibilità e indifferenza, di diniego e collusione inconscia con quegli apparati repressivi e antidemocratici sempre più pervasivi, e che ci faccia uscire dagli studi professionali, perché la cura non può limitarsi alla stanza d’analisi. Lo sforzo richiesto è rimanere nel conflitto, tra violenza e desiderio di vita, invece di rassegnarci e appiattirci in una dimensione ambigua e indifferenziata. Amati Sas parla di ambiguità, quella che deposita fiducia e bisogno di sicurezza in governi e istituzioni incapaci di garantire pace e armonia. Istituzioni democratiche che forse, per una parte consistente dell’umanità, non hanno mai funzionato davvero come tali.
Nel nostro mestiere siamo tenuti a nominare le cose, dare senso e peso alle parole, cercare insieme ai nostri pazienti i significati di ciò che viene vissuto. Riconoscere e nominare le violenze, gli effetti che hanno, e il contesto in cui accadono è un passaggio terapeutico imprescindibile. Confondere l’etica dello psicoanalista con le sole regole del setting significherebbe tradire il mandato della psicoanalisi. In tempi di guerra non possiamo riferirci solo al trauma passato e alla dimensione intrapsichica: la cosiddetta ‘neutralità’ rischia di legittimare lo status quo traumatico.


Ci sono tanti scritti in cui viene spiegato come le ferite storiche, dovute a secoli di colonialismo e oppressione, alimentino mobilitazioni e ostilità transgenerazionali. Sappiamo che per riparare le ferite è necessario ritessere le narrazioni collettive: riconoscere i torti avvenuti, integrare le memorie in conflitto. Sappiamo anche però che molte di queste condizioni di oppressione sono ancora in essere.
Nelle zone di conflitto permanente, come non citare la storia della Palestina, ma anche di molte zone del Medio Oriente, come il Kurdistan, della America Latina, dell’Africa, la salute mentale non può essere separata dal contesto di violenza in cui sono immerse le persone. Chiedere alle persone di adattarsi interiormente a un contesto disumanizzante significa negare la realtà.
Samah Jabr, straordinaria psichiatra palestinese, ci spiega che in Palestina non c’è un ‘dopo il trauma’: il trauma si rinnova ogni giorno, accumulandosi e trasmettendosi tra generazioni. E che quindi le categorie della psichiatria occidentale che noi applichiamo quando andiamo in quei contesti non bastano. In quel caso non si tratta di ferite individuali o eventi isolati, ma di una vita intera segnata da un territorio sotto occupazione. Parlare di ‘disturbo mentale’ è fuorviante: ansia e depressione sono reazioni comprensibili a un’ingiustizia permanente. Molti programmi internazionali insistono su diagnosi e psicofarmaci, puntando a un equilibrio interiore e individuale che in realtà non può esserci a causa di condizioni esterne deprivanti e ingiuste.
La dottoressa Jabr parla di ṣumūd un concetto palestinese antico, che ha un significato più ampio della nostra resilienza. Non è solo forza interiore, ma anche orientamento all’azione, radicato nella collettività e simboleggiato dall’ulivo con le sue radici profonde. Significa in arabo “fermezza, resistenza, perseveranza”. Una forma di resistenza quotidiana che si esprime nel continuare a vivere, studiare, coltivare la propria terra, creare, celebrare la propria cultura e ricostruire ciò che viene distrutto. È insieme atto politico, etico e spirituale: un modo di trasformare la vulnerabilità in dignità e la sofferenza in legami comunitari.
La vera cura, non sta solo nell’aiuto umanitario, ma nel riconoscimento del dolore e nell’ottenimento di giustizia. Perché la giustizia ha un effetto terapeutico più profondo di qualsiasi farmaco o terapia. Parlare di pace astratta non basta: la pace deve essere giusta, fondata su memoria e solidarietà.


Alla luce di tutto questo, cos’è la pace?
Forse non è un traguardo da raggiungere una volta per tutte, né un’etichetta neutra. È un processo, un esercizio quotidiano. La storia non procede per linee ascendenti verso un progresso garantito: conosce cicli, ripetizioni e discontinuità. La vera emancipazione non si attende in un futuro ideale, ma si costruisce qui e ora, nel dispiegarsi dell’agire e delle relazioni. Richiede contesti comunitari capaci costruire una rete di simboli e pratiche che trasformino l’aggressività in cura, responsabilità e progetto, senza chiedere alle persone di adattarsi a ciò che è ingiusto e disumano. Richiede redistribuzione e riparazione. Richiede memoria e condivisione delle scelte, giustizia, cura, liberazione del desiderio, dignità. Con queste parole, e con le azioni che le rendono vere e non parole vuote e senza senso, una politica realmente democratica può farsi, finalmente, pace viva e presente.
‘Nessuna giustizia, nessuna pace’ scrivevamo sui muri negli anni ‘90, slogan che presuppone qualcosa di profondamente vero che riguarda sia la storia degli individui che quella dei popoli.

Bibliografia

Amati Sas, S., Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale, FrancoAngeli, Milano, 2020
Aulagnier, P., I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, La Biblioteca by ASPPI, Milano, 2002
Benasayag, M.; Del Rey, A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2008
Bion, W. R., Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma, 2009
Bion, W. R., Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 2018
Bleger, J., Simbiosi e ambiguità. Studio psicoanalitico, Armando Editore, Roma, 2018
Dorlin, E., Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, Roma, 2020
Fanon, F., I dannati della terra, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007
Fisher, M., Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018
Freud, S.; Einstein, A., Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino, 1997
Han, B.-C., La società della trasparenza, nottetempo, Roma, 2014
Jabr, S., Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, Sensibili alle Foglie, Roma, 2019
Jabr, S., Sumud. Resistere all’oppressione, Sensibili alle Foglie, Roma, 2021
Klein, M., Invidia e gratitudine, Giunti Editore, Firenze, 2012
Klein, M., La psicoanalisi dei bambini. Nuova edizione rivista e ampliata, Giunti Editore, Firenze, 2014
Marx, K., Il Capitale. Libro I, Editori Riuniti, Roma, 2017
Winnicott, D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 2015
Winnicott, D. W., Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 2020

Foto scattata a Santiago de Chile durante l’ Estallido social, marzo 2020

Marco Cavallo libera tutt*

Pubblichiamo qui di seguito l’intervento della Brigata BASAGLIA
letto al corteo di Marco Cavallo libera tutt* per l’abbattimento dei CPR e contro la detenzione amministrativa, del 20 settembre 2025

Buongiorno a tutt*, siamo la Brigata Basaglia, un collettivo che si occupa di salute mentale con un approccio basagliano, radicale e conflittuale, e vorremmo condividere alcune riflessioni sui CPR.

La prima, su cui si fonda ogni nostra pratica e azione, è la convinzione che i CPR siano gli eredi dei manicomi, con cui condividono gli obiettivi di abuso, tortura, deumanizzazione delle persone rinchiuse.

Come per i manicomi 47 anni fa, non esiste nessun altro destino possibile per i CPR se non essere riconosciuti come istituzioni totali, luoghi di segregazione e controllo, lager inammissibili nella nostra società che, per questo motivo, devono essere immediatamente chiusi e mai più riaperti.

Se poi proviamo a pensare al tema della “salute mentale” nei CPR, ci accorgiamo come questa sia totalmente negata. Anche solo poter pensare di considerare una persona “idonea” alla permanenza in un CPR è contro i basilari principi di umanità e cura, di cui come professionisti sanitari dovremmo farci portatori. E’ sufficiente portare l’esempio dell’abuso di farmaci, ampiamente documentato, che è una forma di tortura sul corpo delle persone migranti.

Riconoscere la continuità delle pratiche neo-manicomiali nei CPR, come anche nelle carceri, è fondamentale per comprendere che non basta la chiusura dei luoghi, ma è necessaria una profonda riflessione sulle pratiche che in quei luoghi nascono e che vengono portate avanti dentro e fuori. 

Non basta lottare per l’abbattimento dei muri, ma è necessario interrogarsi su cosa rimane dentro di noi: cioè uno sguardo e delle pratiche di stampo coloniale che impediscono alle persone di autodeterminarsi. La lotta per la chiusura dei CPR deve dunque essere accompagnata dalla critica all’assistenzialismo del terzo settore.

Dietro il linguaggio dell’aiuto e della protezione spesso sono sottintesi paternalismo, infantilizzazione e a volte anche sfruttamento. Lavori sottopagati o apparentemente ‘volontari’, corsi e mansioni decisi dall’alto, incasellamenti basati su genere e origine. Questi spesso non rappresentano strumenti di emancipazione, ma modalità per incanalare le persone in ruoli sociali già decisi dalla societá suprematista, classista e patriarcale. 

Lo Stato, le istituzioni, chi dirige cooperative, associazioni e fondazioni del privato sociale -insomma chi detiene potere- sono per lo più bianchi, occidentali, spesso benestanti e si pongono come guida, come modello a cui la persona migrante deve adeguarsi, riproducendo quasi sempre la divisione dei ruoli e le gerarchie di genere. Queste pratiche non emancipano, ma riproducono le stesse gerarchie razziste e sessiste che giustificano detenzione e deportazioni, oltre a basarsi sullo sfruttamento di operatori e operatrici precarie e sottopagate. La retorica del ‘noi che integriamo’ e del ‘loro da salvare’ serve a legittimare lo status quo e a mantenere le persone in una condizione di dipendenza. 

Eppure nei CPR e fuori da essi non mancano le resistenze quotidiane: chi rifiuta ricatti, chi protesta, chi rivendica la propria dignità. Per questo la solidarietà autentica non può consistere nel parlare al posto loro, né nel trattarli come vittime passive, significa piuttosto sostenere la loro forza e la loro capacità di lotta, riconoscendo in pieno la loro autonomia e soggettività contro frontiere, muri e stigmi.

Marco Cavallo è un simbolo di liberazione e di creatività, un simbolo che è stato riprodotto anche in altri contesti di violenza e abuso, come a Jenin, in Palestina, dove un cavallo è stato costruito con i resti delle armi usate da Israele per occupare, uccidere e annichilire. La lotta contro la violenza totale dei CPR é interconnessa con la solidarietà alla resistenza palestinese che si oppone alle politiche genocide e disumanizzanti dello Stato di Israele.

Occuparsi di salute mentale significa anche questo: rompere le regole attraverso la radicalità, la solidarietá internazionale e la creatività, vedere la possibilità di cambiamento dove sembra non esserci, trovare una strada per realizzare l’utopia. Come diceva Basaglia: “…iniziare a fare quello che ritenevamo impossibile…”.

Per farlo è necessario un cambiamento profondo, fuori, ma anche dentro di noi, un cambiamento che ci faccia stare scomodi nella nostra pelle e che ci trasformi per poter abbattere davvero tutti i muri.

Fuoco ai CPR!

Il diario di Nour, psicologa a Gaza: «Guarisco, mi spezzo, tengo duro, crollo»


La testimonianza della psicologa Nour Z. Jarada. Pubblicata su Libération il 23 luglio 2025
Oggi condividiamo con voi il dodicesimo episodio del diario di Nour, la psicologa che vive a Gaza lavorando come responsabile dei servizi di salute mentale per Medici del Mondo.

Grazie, Nour.

“Come fai ad andare avanti? Come continui ad aiutare gli altri quando anche tu stai soffrendo? Ti è mai capitato di crollare? Riesci ad andare avanti?”
Queste sono le domande che mi sento ripetere più e più volte, da giornalisti, amici, colleghi all’estero, persino da sconosciuti online. E onestamente, le pongo anche a me stessa.
Da oltre 21 mesi vivo una guerra incessante a Gaza. Sono una professionista della salute mentale; ma qui, questo titolo è tutt’altro che sufficiente. A Gaza, non ci è concesso il privilegio di essere solo una cosa. Sono una terapeuta, sì. Ma sono anche una donna che affronta una perdita. Sono una madre che cerca di proteggere i suoi figli. Sono una figlia in lutto per i propri cari. Sono un’operatrice sanitaria stanca della guerra, un’anima spezzata che porta il peso degli altri. Sono testimone di crimini indicibili. Sono una che si prende cura dei feriti, pur portando le mie ferite. Sono tutti questi ruoli contemporaneamente, inseparabilmente intrecciati. Guarisco, mi rompo, sostengo, crollo a pezzi.

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LA CLINICA AI TEMPI DEL FASCISMO: parte seconda

Día de la Resistencia, Gerardo Rayo, 2024 (Xilografia)

Qui la prima parte dell’articolo, se invece vuoi scaricare il pdf del testo completo puoi farlo al seguente link: scarica il PDF

La cultura fascista influenza anche le scienze psicologiche, le quali, a loro volta, alimentano e sostengono una certa atmosfera autoritaria. Chiara Volpato ricostruisce il dibattito italiano tra psicologia e razza durante il periodo fascista. La ricercatrice riporta alla luce la “race psychology” italiana, una psicologia razziale rimossa dalla memoria collettiva. Negli anni ‘30 e ‘40 del Novecento una serie di studiosi cercarono di declinare il Manifesto degli scienziati razzisti in ambito psicologico. Il professore degli atenei di Bologna e Modena, Mario Canella, tenne in quegli anni il corso di Biologia delle razze umane, fu redattore della Rivista di Psicologia e scrisse il libro Principi di psicologia razziale. Canella attribuiva ai tratti psichici un ruolo fondamentale nella costruzione della gerarchia razziale, intesa come una “razza mentale”.

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LA CLINICA AI TEMPI DEL FASCISMO

 Con Amor Sí… , Gerardo Rayo, 2024 (Xilografia)

Qui la secoonda parte dell’articolo, se invece vuoi scaricare il pdf del testo completo puoi farlo al seguente link: scarica il PDF

PRIMA PARTE

La notte del 24 settembre 2024, nella zona della movida milanese, una moto non si ferma all’alt di una pattuglia. Fares Bouzidi, 22 anni, è alla guida, seduto dietro di lui c’è Rami Elgamal, 19 anni. I carabinieri li inseguono per 8 chilometri a sirene spiegate. Nelle registrazioni si sentono i commenti dei militari: “Vaffanculo! Non è caduto!”. Poi, riescono a farli schiantare contro un semaforo, Ramy muore sul colpo. Una volta data la notizia dell’abbattimento, arriva la risposta, glaciale, di un collega: “Bene”. Dopo la caccia all’uomo, sembra di trovarsi di fronte a un’esecuzione. La crudeltà della vicenda ci porta a interrogarci sulle origini di tale cattiveria: quali sono le radici del male? Gli uomini seduti nella volante dei carabinieri sono degli squilibrati, dei sociopatici, delle persone malate? Siamo abituatə a pensare che questa violenza sia frutto di qualcosa di malato, di deviato. Abbiamo bisogno di credere che non possa essere qualcosa di “normale”: chi esercita questo tipo di violenza deve essere per forza malato. O deve aver subito un trauma che a sua volta ripete, in uno schema patologico. L’esperienza delle istituzioni totali è l’esempio chiaro di questo modo di pensare: dividere il mondo in sani e malati, buone e cattive. Sia la psichiatria che la psicologia clinica e la psicoanalisi hanno spesso supportato, nella teoria e nella pratica, una visione del mondo che mette l’Io, l’individuo al centro della società, e quindi responsabile di tutti i mali, come l’ unico fautore del proprio destino.

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Il pessimismo della ragione, l’ottimismo della pratica. Lo stato dei servizi perugini della salute mentale

Pubblichiamo l’inchiesta sullo stato dei servizi di salute mentale a Perugia svolta dalla Brigata Basaglia Perugia.

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Introduzione

La Salute, definita dalla Carta Costituzionale dell’OMS come: “Una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità” è un diritto sancito dalla nostra Costituzione.

La conversazione intorno alla Salute Mentale non può prescindere da una presa di coscienza su tutti gli spazi attraversati dalle persone, sui contesti politici e sociali ampi, sui sistemi economici, sulle città, le famiglie, l’istruzione e, naturalmente, la sanità.

Essa è un fatto di pubblico interesse, dunque la conversazione non può prescindere dalla politica.

La sanità pubblica si assume la responsabilità di ricucire gli strappi, guarda alle ferite, alle cadute e alle malattie e vi pone rimedio, idealmente inquadrando la persona all’interno di un contesto, idealmente dialogando con le altre forze costruttrici di benessere, idealmente operando, oltre che nel campo della sofferenza, anche in quello della prevenzione, nonché in quello della salvaguardia. Collabora con le altre istituzioni al superamento degli ostacoli che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

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Sumud: cura e resistenza in Palestina. Intervento di Samah Jabr presso l’Università di Bologna

Pubblichiamo la trascrizione tradotta dell’incontro Sumud: Cura e Resistenza organizzato da Forlí Cittá Aperta e il Collettivo Studentesco per la Palestina Forlí il 18 marzo 2025 presso l’Universita di Bologna.

Recentemente ha scritto del concetto di solastalgia, un termine conosciuto in Occidente nell’ambito della salute mentale e della psicologia ambientale. Tuttavia, lei lo applica alla distruzione della terra in Palestina. Perché la terra è così importante per la salute mentale del popolo palestinese?

Il termine solastalgia da solo non basta a racchiudere la complessità della condizione esistenziale e psicologica vissuta dal popolo palestinese nella propria terra. Piuttosto, può essere inteso come un punto di partenza, un’estensione concettuale che comprende solo una parte di una realtà ben più articolata.

Il popolo palestinese subisce un trauma profondo e continuo: non solo quello provocato dalla violenza fisica diretta, ma anche quello inflitto dalla deumanizzazione sistemica e dalla diffusione di rappresentazioni negative e stereotipi culturali. A questo si aggiunge un dolore meno visibile ma altrettanto lacerante: l’ulteriore dolore legato alla distruzione e alla privazione del legame con la terra. Le popolazioni native comprendono questo dolore in modo particolare, perché vivono una relazione simbiotica con il territorio.

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IL TRAUMA PSICOSOCIALE di Martin Barò, traduzione di Rocco Canosa

foto dal web

Premessa

Ero in Nicaragua nell’autunno del 1990 in missione in qualità di esperto in salute mentale, per conto della Cooperazione Italiana Governativa. Nel febbraio dello stesso anno i sandinisti avevano perso le elezioni e si era costituito un Governo di Unità Nazionale guidato da Violeta Chamorro, ben visto dagli Stati Uniti. Si respirava, però un’aria triste. A causa della sconfitta, inattesa, molti componenti del Fronte Nazionale di Liberazione “Augusto Sandino” erano depressi, fuori da ogni gestione degli apparati amministrativi. Nello stesso tempo infuriava ancora la guerra civile nel vicino Savador, che si stava acuendo dopo il fallimento dell’offensiva del 1989 realizzata dal Fronte Liberazione Nazionale “Farabundo Martì”. Nel novembre del 1989 c’era stato l’assassinio di sei frati gesuiti, tra cui Martin Barò, docente di Psicologia presso l’Università Centroamericana (UCA), ad opera di un plotone delle Forze Armate Governative: un episodio che scosse la comunità internazionale, la quale chiese la fine della guerra, conclusasi poi nel 1992.

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Tavolo internazionalista, i testi dell’incontro “Prendersi cura del mondo, attraversare la catastrofe” del 24.3.2024

ITA

Il presente testo raccoglie gli interventi condivisi durante l’incontro internazionalista Prendersi cura del mondo, attraversare la catastrofe organizzato dalla Brigata Basaglia il 24 marzo 2024.

ESP

Este texto recoge las intervenciones compartidas durante el encuentro internacionalista Cuidando el mundo, a través de la catástrofe organizado por la Brigata Basaglia el 24 de marzo de 2024.

ENG

This text collects the interventions shared during the internationalist meeting Taking care of the world, through the catastrophe organized by Brigata Basaglia on March 24, 2024.

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La salute mentale è un diritto, non un prodotto

Negli ultimi giorni la comunità delle psicologhe e degli psicologi si è trovata a discutere su un’operazione di marketing e pubblicità da parte della piattaforma di psicologia online UnoBravo. L’oggetto del dibattito era la scelta della piattaforma di offrire due sedute gratuite a chi acquistava un prodotto di una nota marca di prodotti per l’igiene personale.

La discussione intorno a questa scelta si è fatta subito molto accesa e ha avuto una risonanza importante sia sui social che all’interno degli ordini professionali.

Come gruppo, stiamo seguendo gli sviluppi di questa vicenda e ne abbiamo discusso, cercando di trarne alcune riflessioni che ci sembrano utili per la comunità sia di operatori che di pazienti. 

Da una parte, i professionisti denunciano una mancanza di “serietà” e “decoro” in queste pratiche commerciali. Dall’altra, alcunə sottolineano come le piattaforme online abbiano risposto a un bisogno della popolazione che non viene soddisfatto né dal sistema pubblico né individualmente dai professionisti. Altrə ancora, mettono in evidenza l’importanza di abbattere lo stigma della salute mentale e come queste campagne pubblicitarie di massa possano agevolare questo processo.

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