
Pubblichiamo l’inchiesta sullo stato dei servizi di salute mentale a Perugia svolta dalla Brigata Basaglia Perugia.
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Introduzione
La Salute, definita dalla Carta Costituzionale dell’OMS come: “Una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità” è un diritto sancito dalla nostra Costituzione.
La conversazione intorno alla Salute Mentale non può prescindere da una presa di coscienza su tutti gli spazi attraversati dalle persone, sui contesti politici e sociali ampi, sui sistemi economici, sulle città, le famiglie, l’istruzione e, naturalmente, la sanità.
Essa è un fatto di pubblico interesse, dunque la conversazione non può prescindere dalla politica.
La sanità pubblica si assume la responsabilità di ricucire gli strappi, guarda alle ferite, alle cadute e alle malattie e vi pone rimedio, idealmente inquadrando la persona all’interno di un contesto, idealmente dialogando con le altre forze costruttrici di benessere, idealmente operando, oltre che nel campo della sofferenza, anche in quello della prevenzione, nonché in quello della salvaguardia. Collabora con le altre istituzioni al superamento degli ostacoli che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Non parliamo di un’utopia: la deistituzionalizzazione è stata possibile in passato, è stato possibile perseguire concretamente, tramite l’attuazione di buone pratiche, l’ideale di Salute così bene espresso dalla definizione di cui sopra. La Cura di Comunità esiste e funziona: dunque ci chiediamo come mai non sia più una priorità nel periodo storico che stiamo vivendo, come mai non ci venga insegnata, non venga incoraggiata e sia così spesso inaccessibile.
La presenza di servizi psichiatrici e psicologici efficienti è conseguente alla presenza di dispositivi di analisi e prevenzione, nonché di luoghi fisici dove le buone pratiche nel campo della Salute Mentale hanno spazio: é nella costruzione di una vita dignitosa e ricca che inizia il processo di cura, ancora prima che negli ospedali e negli ambulatori. La psichiatria non è l’unico mezzo per l’esercizio della cura e non lo è la sua sola componente organicistica che spesso pervade anche i servizi nella nostra regione, ma anche nel resto del Paese, dove ha ripreso piede il modello biomedico: nella pratica della Salute Mentale, dunque, è bene considerare anche la componente psicologica e quella sociale.
La concezione della Salute come funzionamento e produttività, in contrasto con quella di una Cura di Comunità, sembra ormai diffusamente presente e quasi data per scontata, pervade le famiglie e i luoghi di studio, il lavoro e la conversazione politica come fosse sempre stata. Ne deriva una distribuzione delle risorse che sia concorde con un modello biomedico, di tipo prestazionale specialistico, ambulatoriale, che privilegi soluzioni sterili, veloci, che riduca le persone a corpi rotti, che non tenga conto della specialità degli individui, che ancora parli di decoro. Ne deriva una Salute Mentale che abbandona utenti e famiglie, che tiene a galla, appena, chi riesce, e lascia annegare chi non gode del privilegio di salvarsi.
In questo contesto non ha spazio neanche la conversazione su una cura che sia migliore, quasi che il sogno di fare la propria parte appartenga ad un’epoca diversa, quasi fosse infantile e ideologico immaginarla. Che ne è stato dunque delle lotte per le “porte aperte” nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura? Cosa del rifiuto della contenzione fisica e farmacologica?
E della decostruzione del rapporto verticale e autoritario tra medico e paziente?
Nel campo della Salute Mentale, il fallimento della sanità pubblica genera la necessità del mutualismo, ovvero della partecipazione attiva: le persone si associano, mettono a disposizione il loro tempo, l’impegno, le conoscenze e le competenze e attraverso pratiche di incontro, conversazioni, assemblee, proteste e progetti, tentano di sopperire alle mancanze di uno Stato che privilegia il funzionamento dei soggetti al loro benessere. Dallo smarrimento e dall’insoddisfazione nascono le collettività che si muovono in difesa di quella stessa definizione di cura che lo Stato ci promette, nasce l’esigenza di fotografare il contesto, discuterne, svelarne gli abissi a chi non ci ha mai pensato, a chi non ha mai voluto farlo e confrontare chi quegli abissi li ha scavati e vi ha messo casa, l3 loro abitanti con le loro responsabilità e con la possibilità di cambiare lo stato delle cose.
La Brigata Basaglia è un collettivo che si occupa di Salute Mentale sia in termini di mutualismo che di elaborazione politica; lavoriamo da qualche anno alla costruzione di buone pratiche all’interno di un contesto che si dimostra spesso ben lontano dall’essere collaborativo. Come giovani, studenti, lavoratori e lavoratrici del terzo settore, futuri e future professioniste della Salute Mentale che intendono lavorare nei contesti istituzionali, nella sanità pubblica, ci si è resi conto, in prima istanza, come le iniziative presenti sul territorio non fossero adeguatamente promosse e non vi fosse conoscenza effettiva dei dati che riguardano lo stato dei servizi e le loro eventuali problematiche.
Ci siamo affacciat3 appena sul mondo sommerso di cui si vede solo la punta dell’iceberg, ci siamo avventurat3 oltre, abbiamo visitato i luoghi dove resiste l’eredità di quella pagina rivoluzionaria che a Perugia sembra essere dimenticata e li abbiamo trovati sorprendenti ma affaticati; vacilla la filosofia della cura che mette la persona al centro nelle sue declinazioni, che attenziona le case, i lavori e le comunità e che rifiuta la frenesia di questo nostro mondo e il suo bisogno di controllo.
Abbiamo coinvolto addetti e addette ai lavori, visitato servizi, esercitato il nostro diritto di partecipazione sottoponendo all’Azienda Sanitaria Locale di Perugia una richiesta di accesso agli atti nella quale abbiamo chiesto dati sulle contenzioni, sui Trattamenti Sanitari Obbligatori e sulle eventuali morti nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura perugino. Abbiamo chiesto che ci venissero fornite le linee guida regionali sulla contenzione, che erano pubbliche in alcune regioni, ma non nella nostra.
Il quadro che ci è stato dipinto ha stravolto le nostre già basse aspettative: il sistema è in profonda sofferenza, le operatrici e gli operatori lavorano in un contesto di abbandono istituzionale e di povertà di strumenti di lettura critica del contesto.
Serve un cambio di paradigma, una rivoluzione politica e culturale che permetta di esprimere al meglio la potenzialità che il lavoro di cura comunque possiede, un impegno collettivo affinché sia possibile, tramite la filosofia e il sostegno concreto di essa in termini di risorse, costruire le condizioni ottimali in cui le operatrici e gli operatori possano svolgere i loro mestieri e l3 utenti, così come i loro cari, possano godere di una cura che sia consapevole, efficace, condivisa e responsabile.
Lo Stato dell’Arte
Centri di Salute Mentale
Il Centro di Salute Mentale (CSM) si costituisce nella teoria come il crocevia dei servizi della Salute Mentale; la persona che vi si rivolge dovrebbe trovare al suo interno la dimensione della Cura di Comunità intesa come un luogo vivibile e vissuto, dove l’equipe multiprofessionale, provvista anche di figure sociali e non solo sanitarie, si occupa del piano terapeutico dell’utente anche in stretta collaborazione con la sua famiglia. Il CSM si incarica anche di mettere in contatto i vari servizi tra di loro affinché l’utente possa ricevere le cure più adeguate dai servizi che meglio si prestano alla sua situazione particolare.
Per ogni CSM nel nostro paese che si presenta come un luogo vitale, dove vi sono iniziative e attività culturali e dove la partecipazione viene incoraggiata, ce n’è uno sottofinanziato e criminalmente abbandonato alla deriva culturale ed effettiva che tocca tutti i servizi della sanità pubblica.
Attualmente l’organizzazione pone le basi nel Dipartimento di Salute Mentale, ovvero l’insieme delle strutture e dei servizi che hanno il compito di farsi carico della domanda legata alla cura, all’assistenza e alla tutela della Salute Mentale nell’ambito del territorio definito dall’Azienda Sanitaria Locale (ASL).
A Perugia le prime strutture di riferimento per interventi sul territorio coordinate all’interno del modello dipartimentale sono i tre Centri di Salute Mentale: Perugia Centro, Ponte San Giovanni e Bellocchio, aperti dalle ore 07.30 alle 19.30 dal lunedì al sabato, esclusi i giorni festivi. Per quanto i CSM aperti 24 ore al giorno siano sempre di più un lontano ricordo, persino nei luoghi dove il processo di deistituzionalizzazione è stato più pervasivo, appare necessario evidenziare la limitata presenza e disponibilità di tali servizi nel nostro territorio. I CSM perugini resistono seppure sottofinanziati e sotto organico e cercano faticosamente di garantire una copertura su territori vastissimi mentre il deliberato smantellamento dei servizi pubblici avanza fino a minacciare la chiusura di uno dei tre.
Oltre che non coprire gli orari notturni, durante i quali le acuzie vengono gestite unicamente dal pronto soccorso e dunque dal reparto, i nostri CSM non assomigliano al modello di cui sopra: oltre che con la carenza di risorse e personale devono fare i conti con l’isolamento rispetto agli altri servizi e al reparto, nonché con la difficoltà di integrare il lavoro delle cooperative sociali con quello del settore pubblico. Le cooperative dunque si trovano spesso ad agire senza risorse e senza il riconoscimento delle istituzioni, portando talvolta a dinamiche di intenso stress all’interno delle equipe.
Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura
La gestione delle acuzie è appannaggio dell’SPDC, il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Durante il nostro percorso di acquisizione di consapevolezza sullo stato dei servizi del nostro territorio ci siamo imbattut3 in alcune testimonianze dirette delle condizioni in cui versa il reparto del nostro ospedale: ci è stato descritto, da chiunque abbiamo incontrato che lo avesse attraversato come utente, come un non luogo, dove l’abbandono è la prassi, quando non lo è l’oppressione e la violazione dei diritti. Ci hanno descritto il fazzoletto di terra che rappresenta lo spazio esterno del reparto sotterraneo, talmente affollato che alcun3 utenti scelgono di privarsi del momento di libertà a loro concesso, ci hanno parlato delle condizioni igieniche, dei topi, dei pasti impresentabili, della privazione degli effetti personali e tutti e tutte ci hanno parlato delle contenzioni meccaniche e farmacologiche all’ordine del giorno.
Quello che si propone come luogo della cura delle situazioni più delicate spesso prende le sembianze di una catena di montaggio, dove il malato viene ridotto ad una macchina biologica rotta, questo quando al suo interno non si consumano vere e proprie violazioni dei diritti umani, assolutamente paragonabili a quelle che quotidianamente accadevano nei manicomi, tanto faticosamente chiusi, e che si ripetono tutt’oggi all’interno delle istituzioni totali come i carceri o i CPR.
La privazione dell’autodeterminazione e il paternalismo travestiti da assistenza psichiatrica riflettono una concezione della follia non lontana da quella che ha reso necessaria la rivoluzione della Legge 180 e dei cui ideali si fanno portator3 l3 funzionari3 stess3 che in quei luoghi lavorano e che quei luoghi proteggono.
La gestione del servizio si allontana da tutto ciò che può essere definito terapeutico, sfociando in un’operazione di controllo: è la psichiatria come strumento di oppressione.
Contenzione
Secondo il Report contenzioni SPDC – secondo semestre 2023, ottenuto mediante richiesta di accesso agli atti all’ASL Umbria 1, nel solo periodo luglio-dicembre 2023, nell’Ospedale di Perugia ci sono stati ben 65 episodi, nel contesto di 36 ricoveri, in cui 33 utenti sono stat3 legat3 al letto.
La contenzione è la normalità nel contesto del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura perugino: i ricoveri nei quali si applica la contenzione sono “solo” il 16% del totale.
65 contenzioni in sei mesi, una ogni 3 giorni, con una durata media di 45 ore ad episodio: questo significa che se si accede all’SPDC in un qualunque momento è praticamente certo trovare persone legate ai propri letti. Il 30% delle contenzioni supera poi le 48 ore, arrivando ad un picco massimo di 232 ore di contenzione: 10 giorni filati in cui una persona è stata ritenuta pericolosa per sé e per gli altri e conseguentemente tenuta legata al proprio letto.
Inoltre, va evidenziato come la pratica della contenzione venga spesso esercitata ai danni dell3 medesim3 pazienti precedentemente contenut3: 65 episodi di contenzione che si verificano nel contesto di 36 ricoveri ci rappresentano una situazione per cui una persona può passare giorni e giorni legata al proprio letto, venire slegata e poi nuovamente legata per altri giorni. Va evidenziato, poi, che nel 30% dei casi la contenzione viene applicata a cittadin3 stranier3, probabilmente per un’incapacità del sistema sanitario di mettere in campo un modello di lavoro multiculturale, entrando in contatto e costruendo un piano comunicativo funzionale con persone la cui prima lingua non è l’italiano e/o con culture diverse.
Nel 2019 un gruppo di lavoro coordinato dal prof. Alfonso Tortorella, titolare della cattedra di psichiatria all’Università di Perugia, e dalla dr.ssa Laura Paglicci Reattelli, dirigente medico e risk manager dell’Azienda Ospedaliera, ha redatto la “Procedura operativa per la pratica della contenzione nelle Strutture di degenza ospedaliera” documento che rappresenta la formalizzazione e la normalizzazione di pratiche disumane trattate come dispositivi di cura.
Nello stesso documento dove si legge che “Il diritto di potersi muovere liberamente, inteso come libertà del proprio corpo, rappresenta una condizione necessaria alla vita umana stessa e costituisce qualcosa di più forte di un diritto.” si spiega nel dettaglio e per 30 pagine come e quando violare questo diritto.
Nella parte introduttiva del documento si attribuisce alla giurisprudenza e alla deontologia la responsabilità di definire la pratica e la sua liceità; si fa infatti riferimento alla sentenza della cassazione in merito al caso di Francesco Mastrogiovanni, morto di contenzione dopo 87 ore, e la riflessione critica si esaurisce con la constatazione, da essa proveniente, che la contenzione possa avvenire solo in stato di necessità, in quanto non definibile atto medico.
Il documento si affretta dunque a definire il suddetto stato di necessità come “il pericolo attuale di un danno grave alla persona” e prosegue per numerose pagine con le istruzioni su come mettere in pratica la contenzione.
Si legge ancora che “Il ricorso all’uso della contenzione deve essere evento straordinario e motivato, e non metodica abituale di accudimento”: essa viene più volte definita come extrema ratio, una pratica che non può prescindere dalla considerazione di tutti i metodi alternativi da parte dell’equipe multiprofessionale e che, in ogni caso, deve avere la durata minima possibile. Oltre che la problematica assenza di considerazioni critiche sulla pratica è anche nell’applicazione delle regole in questione che si mostrano le contraddizioni: “è comunque preferibile non ricorrere alla contenzione per più di 12 ore”, si legge, ma i numeri ci dicono altro e le persone altrettanto.
Le linee guida diventano di pagina in pagina sempre più macabre: si legge “Ogni 2 ore per almeno 10 minuti, provvedere alla mobilizzazione degli arti consentendo eventualmente al paziente di alzarsi; soltanto nelle ore notturne (dalle 24 alle 6,00) tale attività può essere omessa per favorire il sonno del paziente”. Le immagini che ci arrivano sono quelle di utenti immobilizzat3 da ore, innocu3 e realisticamente stordit3 da una terapia farmacologica utilizzata a scopo contenitivo che vengono mobilizzat3 al fine di prevenire complicazioni mediche. Com’è concepibile che qualcuno resti pericolosə per se stesso e per gli altri, se può essere alzatə, fattə girare su se stessə e legatə ancora per altre ore?
La natura preventiva è intrinseca in queste istruzioni, chi dorme come può essere abbastanza agitatə da richiedere di essere contenutə?
Si legge ancora sulle linee guida: “Quando clinicamente indicato è opportuno eseguire con il paziente un counselling post contenzione, per rielaborare l’esperienza che può essere stata vissuta in modo traumatico e/o punitivo dal paziente stesso. È inoltre importante rielaborare l’esperienza in équipe per far emergere eventuali problematiche insorte durante l’esecuzione della tecnica e per rielaborare un’esperienza che comporta un alto livello di coinvolgimento emotivo, soprattutto se è stato necessario ricorrere all’immobilizzazione fisica.”.
Sono persone che vengono inserite in un sistema in cui l’umiliazione e la disumanizzazione sono indicate come terapeutiche che si confrontano sui traumi che hanno subito con le persone che quei traumi hanno provocato mentre quelle stesse persone vivono la contraddizione di generare e generarsi traumi su cui necessitano confronto con l’equipe perché la messa in discussione della pratica è, in qualche modo, più scomoda.
In questo contesto, nel 2022 la Regione dell’Umbria presenta un progetto di rafforzamento dei Dipartimenti di Salute Mentale intitolato “Superamento contenzione meccanica, percorsi innovativi alternativi al ricovero in REMS”: questo progetto viene presentato contestualmente ad uno stanziamento del Ministero della Salute, che riservava all’Umbria €984.232. Tale progetto dovrebbe andare a creare un registro regionale tramite cui monitorare il fenomeno della contenzione, catalogare le procedure di quest’ultima e acquisire quelle di deescalation. il progetto prevede inoltre un intervento formativo e di sensibilizzazione sul tema per gli operatori. Ad oggi, però, risulta impossibile accedere ai dati raccolti, rendendo impraticabile comprendere la reale ampiezza del fenomeno e come e se questo progetto possa avere inciso.
Trattamento Sanitario Obbligatorio
Con il termine Trattamento Sanitario Obbligatorio si intende una serie di interventi sanitari che possono essere applicati qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza. Esso può essere imposto se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, gli stessi non vengono accettati dal paziente e non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere.
Istituita dalla Legge 180, la misura, se svolta nel rispetto della dignità della persona e con l’obiettivo di smorzare una situazione delicata, avrebbe l’obiettivo di ricercare il consenso alle cure, cogliendo l’opportunità come spazio di negoziazione per convincere, non assaltare. Spesso invece le modalità con cui viene esercitata la rendono una questione di pubblica sicurezza e controllo sociale della devianza, dando priorità alla “tutela” della società rispetto che alla cura, come se la concezione di pericolosità sociale non fosse essa stessa pericolosa e limitante.
Secondo i dati del Programma Nazionale Esiti 2023 del Ministero della Salute, la Provincia di Perugia è una delle cinque province con il maggior tasso di Trattamenti Sanitari Obbligatori su 10.000 abitanti: 2.3 rispetto ad una media nazionale di 0.8, quasi il triplo. Secondo il Rapporto Salute Mentale 2023 del Ministero della Salute invece, l’Umbria raggiunge un tasso di 2.6, a fronte di un indicatore nazionale di 1.0: si tratta della Regione d’Italia in cui si fa più ricorso al TSO.
Inoltre evidenziamo che, sempre secondo i dati del Rapporto Salute Mentale, la Regione Umbria detiene anche il primato per il rapporto fra TSO e totale dei ricoveri in reparti psichiatrici: il dato regionale si attesta oltre il 20%, a fronte di un dato nazionale del 5% circa. Questo significa che in ogni dato momento, statisticamente, una persona su cinque che si trova ricoverata in SPDC, si trova lì contro la sua volontà: questo aggrava ed alimenta anche l’utilizzo della contenzione meccanica, infatti l’80% delle contenzioni registrate nell’SPDC di Perugia è ai danni di pazienti in regime di TSO.
Questo strumento, invece di essere l’extrema ratio, è diventato un evento abusato e routinario, perdendo l’originale caratteristica di eccezione. I servizi territoriali di Salute Mentale non riescono ad organizzare un’assistenza in grado di evitare l’ospedalizzazione, per cui si procede al sequestro sanitario della persona.
Conclusione
Alla luce della fotografia dello stato dell’arte dei servizi della nostra città, come collettivo ci siamo plasticamente res3 conto della distanza presente tra il concetto di Salute faticosamente costruito nei decenni precedenti, ancora teoricamente sposato dalle nostre istituzioni, e il substrato filosofico, politico, economico e sociale che rende possibile l’attuale declino dei servizi della Cura. La psichiatria perugina, erede di una splendida pagina di deistituzionalizzazione, ha subito un processo di cancellazione storica e versa ora in condizioni tragiche sia in termini di risorse che in termini di filosofia e metodo.
In qualsiasi servizio cittadino, ad emergere è una criticità legata alla poca disponibilità di personale, spesso vittima di divisioni orarie non sostenibili e mancanza di certezze e stabilità. Crediamo che ci sia bisogno di investire in termini di stabilizzazione del personale e di nuove assunzioni, al fine di garantire un servizio capace di rispondere ai bisogni dell3 cittadin3 e dell3 utenti e un lavoro dignitoso e sicuro a chi sceglie questa professione, soprattutto considerando l’aumento di richieste nel campo della Salute Mentale.
Tuttavia crediamo che, per quanto il nostro sistema sanitario nazionale sia sottofinanziato, la sua sofferenza non sia un effetto collaterale ma una deliberata scelta da parte dei decisori politici: le risorse vengono erogate anche sulla base dell’idea di Salute e di Cura che si intende perseguire. È impossibile astrarre la pratica dal contesto: quando abbandono e indisposizione al cambiamento sono pilastri fondanti del sistema non può avvenire la cura in questi servizi. C’è un modo di inquadrare gli operatori e le operatrici come ingranaggi di un macchina rotta senza deresponsabilizzarl3, c’è un modo di parlare di risorse senza cancellare la necessità di una relazione terapeutica funzionale tra gli operatori e le operatrici presenti, seppure sotto organico, e l3 utenti.
Vanno quindi perseguiti due obiettivi paralleli: appare assolutamente imprescindibile dotare i servizi di risorse e sostenere il lavoro delle equipe, la cui responsabilità nell’inefficacia di questi non può che risentire delle condizioni di lavoro. Contemporaneamente la contenzione, così come l’uso prioritario delle terapie farmacologiche, l’abbandono, l’isolamento e il verticismo dei rapporti terapeutici sono intrisi di cultura: nei luoghi dove non si contiene, una percentuale irrisoria dei reparti del paese, la pratica sembra aliena. Rispondiamo così alla rassegnazione che ci è stata restituita nei confronti avuti con l3 responsabili dei servizi perugini: legare non è obbligatorio, tant’è che non si lega ovunque e dove non si lega bisognerebbe insegnarlo, tanto quanto va insegnato, qui, di nuovo, a non legare.
Se la priorità non è rappresentata dall’ integrazione dell’individuo all’interno del tessuto sociale che vive, i servizi andranno incontro a isolamento e frammentazione, allo stesso modo se nella pratica della medicina viene dato rilievo al decoro e al rendimento della persona, i servizi prediligeranno una cura che si preoccupa di restituire il soggetto alla sua funzione di membro produttivo della società, indipendentemente dal suo benessere o dalla sua realizzazione personale.
Al ruolo del medico e in particolare del medico psichiatra viene ancora oggi riconosciuto un valore sproporzionato, sia rispetto all3 altr3 professionist3 della Salute, sia rispetto a familiari, utenti e chi costituisce la comunità curante. Il superamento della contenzione, così come la costruzione di un’alleanza terapeutica, o di spazi adibiti alla cura che siano vivibili, efficaci e arricchenti, non può prescindere dalla decostruzione di questa figura come ancora oggi la intendiamo.
Il processo dovrebbe iniziare all’interno dei luoghi del sapere: nelle università. Eppure il percorso formativo dell3 professionist3 della salute, soprattutto dell3 studenti di medicina, non prevede spazio per una visione critica del sistema, né per l’acquisizione delle competenze umane necessarie nell’interazione con l’altro. Lo studio della medicina e in particolare della psichiatria iniziano nell’isolamento e nella frammentazione, fino a generare medici convinti di essere i detentori della salute, per i quali il dialogo e il rapporto terapeutico orizzontale appaiono superflui, per i quali la contenzione può davvero apparire come una
misura moralmente neutra, in quanto non abituati a considerare l’autodeterminazione dei corpi. Non potremo parlare di un’adeguata formazione finché la salute mentale non sarà contestualizzata, finché non verrà dato spazio all’università, nello studio del disagio psichico, oltre che alla sola componente organica, anche a quella psicologica, sociale, economica e filosofica.
Non ci resta, a fronte del quadro che abbiamo dipinto, che vivere la contraddizione, guardare in faccia l’esasperazione e contemporaneamente credere nella possibilità di un cambiamento: l’attivismo ci salva, l’associazionismo e l’aggregazione.
Per questo ci rivolgiamo anche alle forme di cura della società basate su metodi partecipativi, capaci di cercare nuove strade per praticare la Salute Mentale. Il nostro concetto di cura non si ferma in ospedale, ma si radica sul territorio in tutte le sue forme: la Salute Mentale passa per le infinite modalità possibili dell’abitare, del lavorare e in generale del vivere insieme.
Non possiamo che credere a Franco Basaglia quando nelle Conferenze Brasiliane diceva: «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare».