Nessuna giustizia, nessuna pace: dal trauma all’azione collettiva. Una lettura psicoanalitica del conflitto

Foto scattata a Santiago de Chile durante l’ Estallido social, marzo 2020


di Francesca Daidone C.

“Dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale.”
(Mark Fisher, Realismo Capitalista)

Parlare di pace oggi è doloroso e difficile.
Cercherò di farlo in modo coerente nella mia duplice veste di psicoanalista e persona impegnata politicamente.
Non posso pensare la pace senza considerare insieme la dimensione inconscia, quella sociale e quella politica.
E credo che, per uscire dalla violenza che ci attraversa in questi tempi molto difficili, serva prendere parola con più coraggio e sia necessario un coinvolgimento personale più profondo e attivo da parte di tutte e tutti noi.


Cos’è la pace? Quanto stride questa parola oggi? Quando pensiamo alla parola pace, ci viene naturale figurarcela come assenza di guerra, un luogo ideale in cui si possa vivere in armonia e in cui non esistano conflitti e violenza.
Ma se proviamo a guardare la pace dal punto di vista psicoanalitico, la prospettiva cambia radicalmente. La psicoanalisi ci insegna che il conflitto di per sé non è una malattia da guarire, né una parentesi eccezionale della vita, ma la condizione stessa che struttura l’individuo e la società.
La psicoanalisi, a partire proprio da Freud, offre una lettura della storia come processo segnato da conflitti, rimozioni, ritorni. L’elaborazione freudiana consente di pensare la soggettività come intrinsecamente storica, poiché l’essere umano si costituisce attraverso il conflitto. La legge, la religione, la civiltà non sono dati naturali, ma costruzioni storiche che emergono dal modo in cui gli uomini elaborano collettivamente pulsioni e istanze. L’individuo non è solo un soggetto intrapsichico, ma un essere che porta dentro di sé la traccia della storia, e la storia stessa, a sua volta, è intessuta di dinamiche psichiche. Non esiste quindi un’unità compatta, ma un campo di tensioni. Il conflitto non è un accidente né un’anomalia, ma una dimensione strutturale della psiche: ciò che definisce in modo costitutivo l’individuo. Dentro di noi convivono desideri, divieti, spinte vitali e pulsioni distruttive. Per questo parlare di pace come fine del conflitto è un errore concettuale: significherebbe immaginare una psiche senza tensioni, senza desideri, in fondo senza vita. La psicoanalisi non promette quindi una pace immaginaria, ma offre una chiave per leggere il conflitto e renderlo occasione di cambiamento e creatività perché non si limita a diagnosticare una sofferenza, ma apre lo spazio di una trasformazione. L’individuo, attraverso il lavoro analitico, può rielaborare i propri conflitti, riconfigurare i propri rapporti con il desiderio, e quindi modificare le condizioni stesse della sua esperienza. Tale possibilità si radica nel nesso indissolubile tra conflitto psichico e contesto sociale: l’inconscio non è un ‘fuori dalla storia’, ma un luogo in cui la storia stessa si iscrive e prende forma.


Nel 1932 Einstein scrive a Freud chiedendo se sia possibile liberare l’umanità dalla ‘fatalità della guerra’. Intuisce che non bastano assetti giuridici, a sabotare i progetti di pace intervengono forti fattori psicologici che trascinano le masse verso il furore e l’autodistruzione. Freud risponde con realismo: i conflitti d’interesse, storicamente, si decidono con la violenza, il diritto nasce come violenza della comunità che si sostituisce a quella del singolo. Ma indica una possibile via d’uscita: se l’aggressività non è eliminabile, può essere legata, trasformata. L’antagonista della distruttività è l’Eros e tutto ciò che crea legami tra gli esseri umani, amicizie, identificazioni, ideali comuni, diventa un antidoto contro la guerra.
Sappiamo però che l’illusione di una pace definitiva, di una pace perpetua, ha spesso finito per legittimare guerre presentate come necessarie: la guerra stessa diventa così strumento della pace, e nel nome della pace si accetta la violenza degli Stati, delle forze armate, delle economie di guerra.
Si esporta ‘democrazia’ con le bombe intelligenti.


Cito alcuni autori postfreudiani che ci possono aiutare a leggere queste dinamiche. Melanie Klein ci offre degli strumenti di lettura analitica utili ad affrontare la tendenza alla furia distruttrice e alla incapacità di pensare tipiche del pensiero in tempi di guerra. Mostra che, quando è in preda all’angoscia, la mente scinde il mondo in buono/cattivo, amico/nemico, proprio la posizione schizoparanoide che vediamo all’opera nelle guerre e nelle polarizzazioni. Adesso accentuate ancora di più dall’uso di massa delle piattaforme commerciali dei social network. La Klein spiega come la vera maturazione consista nel passaggio alla posizione depressiva: riconoscere cioè l’altro come intero, tollerare l’ambivalenza, prendersi carico del dolore che deriva dal legame. È qui che il conflitto diventa etico.
Winnicott e Bion hanno aggiunto un’altra dimensione: il ruolo dell’ambiente. Senza contesti capaci di contenere le angosce collettive, il conflitto si agisce come violenza distruttiva. Così come il bambino ha bisogno di una madre “sufficientemente buona” che regga le sue angosce primitive, anche le società hanno bisogno di contenitori che sappiano dare forma alla paura, trasformarla in pensiero, in spazi di parola ed elaborazione condivisa. È necessario trasformare emozioni grezze in pensieri condivisibili. Bion ci dice anche che i gruppi funzionano come contenitori delle angosce individuali, ma quando prevale un “assunto di base” irrazionale, possono scivolare in condotte distruttive. Leader carismatici o ideologie possono attivare fantasie collettive che, nell’individuo, sarebbero considerate psicotiche.


Vorrei qui fare un inciso sulla questione della violenza. Troppo spesso ridotta a un’alternativa moralistica: violenza in contrapposizione a non-violenza. Questo è un dibattito che spesso schiaccia e mistifica le questioni.
L’odio per l’ingiustizia non è una patologia, ma un segnale etico: indica un limite violato, difende il Sé ferito, rompe l’anestesia dell’alienazione. Il punto non è ‘non odiare’, ma come orientare quell’energia. Il criterio, psichico ed etico, non è l’assenza di forza, ma che cosa una forza distrugge e che cosa rende possibile. Non ogni rottura ha lo stesso senso: una cosa è l’attacco a dispositivi e infrastrutture che producono oppressione e morte, altra è la lesione dei corpi e della vita. A questo proposito a Genova 2001 dopo l’uccisione di Carlo Giuliani e la mannaia repressiva scatenata sulla testa di pochi scrivevamo su un muro “Vale più una vetrina rotta di una vita spezzata”.
Il giudizio mainstream, veicolato dai massmedia tutt’altro che indipendenti, sull’odio e sulla violenza attribuiti spesso alle contestazioni sociali, nella società del controllo è un giudizio ipocrita: serve solo a mantenere il monopolio della violenza. Perché, e questo ce lo spiega molto bene Elsa Dorlin, professoressa di Filosofia all’università di Parigi, lo Stato e gli eserciti nazionali, o al soldo delle multinazionali, detengono il monopolio della violenza e la legittimità di agirla per legge. Il sistema democratico, che si erge come espressione massima del compimento della natura umana, pone al di là del confine legittimo e umano il nemico, la barbarie, che negli ultimi decenni è rappresentato dalla figura del terrorista, vero e proprio paradigma dell’Altro, estraneo da sé e dalla propria cerchia, categoria minacciosa del disumano come ci spiegano Benasayag e Del Rey. Quindi il confine moralistico tra “violenza” e “nonviolenza” è spesso l’argomento con cui il potere disarma il dissenso e tiene ‘buone’ le classi subalterne, ne delegittima ogni protesta, mentre l’ordine armato continua a mantenersi grazie a interessi e profitti, che sappiamo ormai benissimo non avere niente a che vedere con il bene comune o un fantomatico progresso.


Fanon, parlando di colonialismo, mostra che esiste una violenza che ha una funzione catartica e liberante, e restituisce dignità ai soggetti colonizzati. Non si tratta, per Fanon, di cieca distruttività, ma di un passaggio necessario alla liberazione e alla ricostruzione di sé e della comunità.
È essenziale tuttavia vigilare sul rischio che l’odio si trasformi in disumanizzazione dell’altro e che il ciclo della violenza si riproduca. Ma è proprio questa la differenza tra una violenza distruttiva, senza senso, o con l’obiettivo ben preciso di annientamento volto a reprimere, a conquistare potere e risorse, a difendere privilegi e proprietà privata, e un’organizzazione e una trasformazione collettiva della collera, perché diventi giustizia, azione capace di incidere realmente sul presente.
Quindi sì simbolizzare e organizzare la rabbia in senso collettivo e nello stesso tempo sentire di poter incidere realmente con le proprie azioni e portare a un cambiamento, una trasformazione in senso evolutivo. La forza sociale è sempre stata motore di cambiamento anche nelle democrazie occidentali.


Nel sistema neoliberale in cui Stati, governi e complessi industrial-militari esercitano una violenza strutturale e istituita, attraverso espropriazione, sfruttamento, razzializzazione, impunità, la sola parola rischia di essere assorbita dal dispositivo di pacificazione. La prassi torna quindi centrale: ridare dignità alle azioni, anche quando sono di rottura. Ogni forma di agency, in questo senso, rappresenta un antidoto al trauma, che cerca di imporre impotenza e silenzio.
Anche perché quando le istituzioni della pace formale, a cominciare dall’ONU, continuano a fallire, la legge internazionale è applicata in modo selettivo e coloniale e chi dovrebbero farla rispettare si mostra impotente, si capisce perché i movimenti di protesta si rivendichino l’azione. In termini psicoanalitici, le organizzazioni sovranazionali sono contenitori bucati: assorbono simbolicamente l’angoscia con risoluzioni e dichiarazioni, ma non la trasformano in atti efficaci.
Non basta quindi invocare istituzioni ‘pacificatrici’ che spesso diventano addirittura strumenti di controllo, finendo per espellere il conflitto e radicalizzarlo. È il rischio della “società della trasparenza”, dove tutto deve essere visibile e conforme. In un tale sistema il conflitto non è più accettato come parte della vita sociale, ma trattato come un’anomalia; chi dissente non è riconosciuto come interlocutore politico, ma come deviante da correggere o eliminare. Si parla tanto di maranza come componenete giovanile di terza e quarta generazione, fuori controllo, violenta. Ridurre il discorso della rabbia legettima di questi ragazzi a questione di violenza e controllo sociale significa reprimere il confronto e spingere volutamente sempre più ai margini questo soggetto collettivo così importante e vitale.


Contenere non significa reprimere o negare: un contenitore adeguato non cancella l’alterità, la trasforma in esperienza condivisa. L’alternativa non è tra pace e conflitto, ma tra conflitto rimosso, che ritorna come violenza cieca, e conflitto riconosciuto ed elaborato.
Come categoria ‘psi’ abbiamo una responsabilità enorme: creare spazi di pensiero e confronto. Servono pratiche concrete che coinvolgano davvero chi oggi è escluso, permettendo di discutere apertamente di paure, desideri e bisogni. Invece di selezionare e normalizzare, dovremmo aprirci alle voci marginali. Solo così può nascere una comunità nuova, fondata su condivisione di saperi e immaginazione.
È impossibile parlare di pace senza affrontare le condizioni materiali della vita. Marx ci ricorda che la sofferenza nasce dalla mancanza di diritti basilari: casa, lavoro, cibo adeguato, uguaglianza sociale. Ogni concentrazione di ricchezza e potere genera frustrazione e rabbia. Senza redistribuzione, la pace rischia di ridursi a tregua armata tra inclusi ed esclusi. La psicoanalisi ci insegna a trasformare le pulsioni distruttive, il marxismo ci ricorda che quelle pulsioni trovano forma dentro rapporti sociali concreti.


Come quindi mantenere uno sguardo vigile e critico anche noi psicologhe e psicologi?
Come ci spiega bene la dottoressa Amati Sas, rifacendosi a Bleger e Aulagnier, quando prevale l’alienazione, cioè la trasformazione subdola del pensiero e degli affetti operata dall’esterno, si perde la capacità critica, si smette di interrogarsi, ci si adatta senza rendersene conto. Questo processo non riguarda solo i rapporti personali, ma può estendersi a interi contesti culturali o sociali, che impongono modelli interiorizzati inconsciamente. Nei casi di violenza sociale o politica, ciò si traduce in un conformismo inconsapevole: ci si abitua all’ingiustizia, si rinuncia al giudizio critico e si finisce per adattarsi a qualunque forma di violenza con cui si ha a che fare rendendola ovvia. Penso alla presenza dei CPR in tante città italiane.
Quindi la funzione della psicoanalisi e delle altre discipline che si occupano di salute mentale, oltre la stanza di terapia e nel discorso collettivo, potrebbe essere quella di fornire un terreno solido e sicuro non solo per contenere paura e angoscia ma anche per dare possibilità di trasformazione e visioni nuove. Ma per farlo penso sia necessario mantenere un costante impegno etico che contrasti il rischio di insensibilità e indifferenza, di diniego e collusione inconscia con quegli apparati repressivi e antidemocratici sempre più pervasivi, e che ci faccia uscire dagli studi professionali, perché la cura non può limitarsi alla stanza d’analisi. Lo sforzo richiesto è rimanere nel conflitto, tra violenza e desiderio di vita, invece di rassegnarci e appiattirci in una dimensione ambigua e indifferenziata. Amati Sas parla di ambiguità, quella che deposita fiducia e bisogno di sicurezza in governi e istituzioni incapaci di garantire pace e armonia. Istituzioni democratiche che forse, per una parte consistente dell’umanità, non hanno mai funzionato davvero come tali.
Nel nostro mestiere siamo tenuti a nominare le cose, dare senso e peso alle parole, cercare insieme ai nostri pazienti i significati di ciò che viene vissuto. Riconoscere e nominare le violenze, gli effetti che hanno, e il contesto in cui accadono è un passaggio terapeutico imprescindibile. Confondere l’etica dello psicoanalista con le sole regole del setting significherebbe tradire il mandato della psicoanalisi. In tempi di guerra non possiamo riferirci solo al trauma passato e alla dimensione intrapsichica: la cosiddetta ‘neutralità’ rischia di legittimare lo status quo traumatico.


Ci sono tanti scritti in cui viene spiegato come le ferite storiche, dovute a secoli di colonialismo e oppressione, alimentino mobilitazioni e ostilità transgenerazionali. Sappiamo che per riparare le ferite è necessario ritessere le narrazioni collettive: riconoscere i torti avvenuti, integrare le memorie in conflitto. Sappiamo anche però che molte di queste condizioni di oppressione sono ancora in essere.
Nelle zone di conflitto permanente, come non citare la storia della Palestina, ma anche di molte zone del Medio Oriente, come il Kurdistan, della America Latina, dell’Africa, la salute mentale non può essere separata dal contesto di violenza in cui sono immerse le persone. Chiedere alle persone di adattarsi interiormente a un contesto disumanizzante significa negare la realtà.
Samah Jabr, straordinaria psichiatra palestinese, ci spiega che in Palestina non c’è un ‘dopo il trauma’: il trauma si rinnova ogni giorno, accumulandosi e trasmettendosi tra generazioni. E che quindi le categorie della psichiatria occidentale che noi applichiamo quando andiamo in quei contesti non bastano. In quel caso non si tratta di ferite individuali o eventi isolati, ma di una vita intera segnata da un territorio sotto occupazione. Parlare di ‘disturbo mentale’ è fuorviante: ansia e depressione sono reazioni comprensibili a un’ingiustizia permanente. Molti programmi internazionali insistono su diagnosi e psicofarmaci, puntando a un equilibrio interiore e individuale che in realtà non può esserci a causa di condizioni esterne deprivanti e ingiuste.
La dottoressa Jabr parla di ṣumūd un concetto palestinese antico, che ha un significato più ampio della nostra resilienza. Non è solo forza interiore, ma anche orientamento all’azione, radicato nella collettività e simboleggiato dall’ulivo con le sue radici profonde. Significa in arabo “fermezza, resistenza, perseveranza”. Una forma di resistenza quotidiana che si esprime nel continuare a vivere, studiare, coltivare la propria terra, creare, celebrare la propria cultura e ricostruire ciò che viene distrutto. È insieme atto politico, etico e spirituale: un modo di trasformare la vulnerabilità in dignità e la sofferenza in legami comunitari.
La vera cura, non sta solo nell’aiuto umanitario, ma nel riconoscimento del dolore e nell’ottenimento di giustizia. Perché la giustizia ha un effetto terapeutico più profondo di qualsiasi farmaco o terapia. Parlare di pace astratta non basta: la pace deve essere giusta, fondata su memoria e solidarietà.


Alla luce di tutto questo, cos’è la pace?
Forse non è un traguardo da raggiungere una volta per tutte, né un’etichetta neutra. È un processo, un esercizio quotidiano. La storia non procede per linee ascendenti verso un progresso garantito: conosce cicli, ripetizioni e discontinuità. La vera emancipazione non si attende in un futuro ideale, ma si costruisce qui e ora, nel dispiegarsi dell’agire e delle relazioni. Richiede contesti comunitari capaci costruire una rete di simboli e pratiche che trasformino l’aggressività in cura, responsabilità e progetto, senza chiedere alle persone di adattarsi a ciò che è ingiusto e disumano. Richiede redistribuzione e riparazione. Richiede memoria e condivisione delle scelte, giustizia, cura, liberazione del desiderio, dignità. Con queste parole, e con le azioni che le rendono vere e non parole vuote e senza senso, una politica realmente democratica può farsi, finalmente, pace viva e presente.
‘Nessuna giustizia, nessuna pace’ scrivevamo sui muri negli anni ‘90, slogan che presuppone qualcosa di profondamente vero che riguarda sia la storia degli individui che quella dei popoli.

Bibliografia

Amati Sas, S., Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale, FrancoAngeli, Milano, 2020
Aulagnier, P., I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, La Biblioteca by ASPPI, Milano, 2002
Benasayag, M.; Del Rey, A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2008
Bion, W. R., Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma, 2009
Bion, W. R., Esperienze nei gruppi, Armando Editore, Roma, 2018
Bleger, J., Simbiosi e ambiguità. Studio psicoanalitico, Armando Editore, Roma, 2018
Dorlin, E., Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, Roma, 2020
Fanon, F., I dannati della terra, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007
Fisher, M., Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018
Freud, S.; Einstein, A., Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino, 1997
Han, B.-C., La società della trasparenza, nottetempo, Roma, 2014
Jabr, S., Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, Sensibili alle Foglie, Roma, 2019
Jabr, S., Sumud. Resistere all’oppressione, Sensibili alle Foglie, Roma, 2021
Klein, M., Invidia e gratitudine, Giunti Editore, Firenze, 2012
Klein, M., La psicoanalisi dei bambini. Nuova edizione rivista e ampliata, Giunti Editore, Firenze, 2014
Marx, K., Il Capitale. Libro I, Editori Riuniti, Roma, 2017
Winnicott, D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 2015
Winnicott, D. W., Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 2020

Foto scattata a Santiago de Chile durante l’ Estallido social, marzo 2020

Il diario di Nour, psicologa a Gaza: «Guarisco, mi spezzo, tengo duro, crollo»


La testimonianza della psicologa Nour Z. Jarada. Pubblicata su Libération il 23 luglio 2025
Oggi condividiamo con voi il dodicesimo episodio del diario di Nour, la psicologa che vive a Gaza lavorando come responsabile dei servizi di salute mentale per Medici del Mondo.

Grazie, Nour.

“Come fai ad andare avanti? Come continui ad aiutare gli altri quando anche tu stai soffrendo? Ti è mai capitato di crollare? Riesci ad andare avanti?”
Queste sono le domande che mi sento ripetere più e più volte, da giornalisti, amici, colleghi all’estero, persino da sconosciuti online. E onestamente, le pongo anche a me stessa.
Da oltre 21 mesi vivo una guerra incessante a Gaza. Sono una professionista della salute mentale; ma qui, questo titolo è tutt’altro che sufficiente. A Gaza, non ci è concesso il privilegio di essere solo una cosa. Sono una terapeuta, sì. Ma sono anche una donna che affronta una perdita. Sono una madre che cerca di proteggere i suoi figli. Sono una figlia in lutto per i propri cari. Sono un’operatrice sanitaria stanca della guerra, un’anima spezzata che porta il peso degli altri. Sono testimone di crimini indicibili. Sono una che si prende cura dei feriti, pur portando le mie ferite. Sono tutti questi ruoli contemporaneamente, inseparabilmente intrecciati. Guarisco, mi rompo, sostengo, crollo a pezzi.

Leggi tutto “Il diario di Nour, psicologa a Gaza: «Guarisco, mi spezzo, tengo duro, crollo»”

LA CLINICA AI TEMPI DEL FASCISMO

 Con Amor Sí… , Gerardo Rayo, 2024 (Xilografia)

Qui la secoonda parte dell’articolo, se invece vuoi scaricare il pdf del testo completo puoi farlo al seguente link: scarica il PDF

PRIMA PARTE

La notte del 24 settembre 2024, nella zona della movida milanese, una moto non si ferma all’alt di una pattuglia. Fares Bouzidi, 22 anni, è alla guida, seduto dietro di lui c’è Rami Elgamal, 19 anni. I carabinieri li inseguono per 8 chilometri a sirene spiegate. Nelle registrazioni si sentono i commenti dei militari: “Vaffanculo! Non è caduto!”. Poi, riescono a farli schiantare contro un semaforo, Ramy muore sul colpo. Una volta data la notizia dell’abbattimento, arriva la risposta, glaciale, di un collega: “Bene”. Dopo la caccia all’uomo, sembra di trovarsi di fronte a un’esecuzione. La crudeltà della vicenda ci porta a interrogarci sulle origini di tale cattiveria: quali sono le radici del male? Gli uomini seduti nella volante dei carabinieri sono degli squilibrati, dei sociopatici, delle persone malate? Siamo abituatə a pensare che questa violenza sia frutto di qualcosa di malato, di deviato. Abbiamo bisogno di credere che non possa essere qualcosa di “normale”: chi esercita questo tipo di violenza deve essere per forza malato. O deve aver subito un trauma che a sua volta ripete, in uno schema patologico. L’esperienza delle istituzioni totali è l’esempio chiaro di questo modo di pensare: dividere il mondo in sani e malati, buone e cattive. Sia la psichiatria che la psicologia clinica e la psicoanalisi hanno spesso supportato, nella teoria e nella pratica, una visione del mondo che mette l’Io, l’individuo al centro della società, e quindi responsabile di tutti i mali, come l’ unico fautore del proprio destino.

Leggi tutto “LA CLINICA AI TEMPI DEL FASCISMO”

Sumud: cura e resistenza in Palestina. Intervento di Samah Jabr presso l’Università di Bologna

Pubblichiamo la trascrizione tradotta dell’incontro Sumud: Cura e Resistenza organizzato da Forlí Cittá Aperta e il Collettivo Studentesco per la Palestina Forlí il 18 marzo 2025 presso l’Universita di Bologna.

Recentemente ha scritto del concetto di solastalgia, un termine conosciuto in Occidente nell’ambito della salute mentale e della psicologia ambientale. Tuttavia, lei lo applica alla distruzione della terra in Palestina. Perché la terra è così importante per la salute mentale del popolo palestinese?

Il termine solastalgia da solo non basta a racchiudere la complessità della condizione esistenziale e psicologica vissuta dal popolo palestinese nella propria terra. Piuttosto, può essere inteso come un punto di partenza, un’estensione concettuale che comprende solo una parte di una realtà ben più articolata.

Il popolo palestinese subisce un trauma profondo e continuo: non solo quello provocato dalla violenza fisica diretta, ma anche quello inflitto dalla deumanizzazione sistemica e dalla diffusione di rappresentazioni negative e stereotipi culturali. A questo si aggiunge un dolore meno visibile ma altrettanto lacerante: l’ulteriore dolore legato alla distruzione e alla privazione del legame con la terra. Le popolazioni native comprendono questo dolore in modo particolare, perché vivono una relazione simbiotica con il territorio.

Leggi tutto “Sumud: cura e resistenza in Palestina. Intervento di Samah Jabr presso l’Università di Bologna”

IL TRAUMA PSICOSOCIALE di Martin Barò, traduzione di Rocco Canosa

foto dal web

Premessa

Ero in Nicaragua nell’autunno del 1990 in missione in qualità di esperto in salute mentale, per conto della Cooperazione Italiana Governativa. Nel febbraio dello stesso anno i sandinisti avevano perso le elezioni e si era costituito un Governo di Unità Nazionale guidato da Violeta Chamorro, ben visto dagli Stati Uniti. Si respirava, però un’aria triste. A causa della sconfitta, inattesa, molti componenti del Fronte Nazionale di Liberazione “Augusto Sandino” erano depressi, fuori da ogni gestione degli apparati amministrativi. Nello stesso tempo infuriava ancora la guerra civile nel vicino Savador, che si stava acuendo dopo il fallimento dell’offensiva del 1989 realizzata dal Fronte Liberazione Nazionale “Farabundo Martì”. Nel novembre del 1989 c’era stato l’assassinio di sei frati gesuiti, tra cui Martin Barò, docente di Psicologia presso l’Università Centroamericana (UCA), ad opera di un plotone delle Forze Armate Governative: un episodio che scosse la comunità internazionale, la quale chiese la fine della guerra, conclusasi poi nel 1992.

Leggi tutto “IL TRAUMA PSICOSOCIALE di Martin Barò, traduzione di Rocco Canosa”

Tavolo internazionalista, i testi dell’incontro “Prendersi cura del mondo, attraversare la catastrofe” del 24.3.2024

ITA

Il presente testo raccoglie gli interventi condivisi durante l’incontro internazionalista Prendersi cura del mondo, attraversare la catastrofe organizzato dalla Brigata Basaglia il 24 marzo 2024.

ESP

Este texto recoge las intervenciones compartidas durante el encuentro internacionalista Cuidando el mundo, a través de la catástrofe organizado por la Brigata Basaglia el 24 de marzo de 2024.

ENG

This text collects the interventions shared during the internationalist meeting Taking care of the world, through the catastrophe organized by Brigata Basaglia on March 24, 2024.

Creative Commons: Quest’opera è soggetta alla licenza Creative Commons “ATTRIBUTION – NONCOMMERCIAL – NODERIVATIVES”: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/deed.en

Leggi tutto “Tavolo internazionalista, i testi dell’incontro “Prendersi cura del mondo, attraversare la catastrofe” del 24.3.2024″

La solidarietà in azione: guarire la nostra umanità ferita attraverso una mobilitazione globale

di Samah Jabr

Il Cavallo di Jenin

A tutte e tutti i coraggiosi manifestanti, offro queste parole di lode e di incoraggiamento:
Sappiate che il popolo della Palestina vi guarda, legge i vostri striscioni e ascolta i vostri slogan!
Commossi dalla vostra solidarietà, troviamo conforto e forza nel vostro sostegno. Le vostre azioni contribuiscono a rigenerare i nostri legami di comune umanità ferita dai regimi egemonici che perpetuano l’ingiustizia sulla Terra.
Come psichiatra palestinese, testimone della recente ondata di militanza studentesca nelle università degli Stati Uniti in solidarietà con la Palestina e osservando allo stesso tempo la reazione locale dei palestinesi, sono colpita dal profondo potenziale terapeutico insito in questi movimenti.
Mentre il popolo palestinese continua a sopportare le brutali realtà dell’occupazione, dell’apartheid e della violenza inflitta dallo Stato israeliano, il sostegno inflessibile dei giovani militanti del mondo intero è un soffio di vita che allevia il nostro strangolamento sotto un’oppressione israeliana senza precedenti.
La censura delle critiche contro il sionismo e lo Stato israeliano gestita come misura di sicurezza all’interno delle università americane è una manifestazione inquietante del silenziamento sistemico delle voci pro-giustizia e pro-palestinesi.
Di fronte a questa repressione, le azioni coraggiose degli studenti e delle studentesse della
Columbia che hanno eretto delle tende nel campus e chiesto il disinvestimento dalle imprese che beneficiano delle attività israeliane sono degli atti audaci di sfida. Malgrado gli arresti e le misure di repressione prese dagli amministratori dell’università, la loro resilienza ha innescato manifestazioni simili in tutto il Paese e all’estero, dove i governi si allineano alle politiche israeliane.
In questo contesto, la solidarietà degli studenti degli Stati Uniti verso i palestinesi non è soltanto una posizione politica, ma un imperativo morale, etico.
Si tratta di un rifiuto importante della complicità storica dei governi e dei media americani nel loro sostegno all’occupazione israeliana e alla sua violenza contro il popolo palestinese.
L’ingenuità, la passività, l’apatia e l’insensibilità dei comuni cittadini hanno da sempre contribuito alla nostra tragedia nazionale allo stesso modo della malvagità e perversità dei leader dei regimi colonialisti. Ma solidarizzando con i palestinesi questi studenti e queste studentesse sfidano la narrazione dell’oppressore e propongono una contro-narrazione fatta di empatia, di giustizia e di umanità.
Grazie alle loro energie, il loro idealismo, la loro empatia e la loro sete di giustizia, questi studenti e studentesse, i giovani in generale, hanno il potenziale per costituire una bussola morale per qualsiasi nazione.
Il loro attivismo per la Palestina riflette un impegno per i valori universali dei diritti dell’uomo, della dignità e dell’uguaglianza. Inoltre, la loro volontà di sfidare le strutture di potere esistenti testimonia una profonda comprensione dell’interconnessione delle lotte globali contro l’ingiustizia.
Non si insisterà mai abbastanza sugli effetti terapeutici della solidarietà internazionale per i
palestinesi. Per un popolo che ha sopportato decenni di sfollamento forzato, espropriazione e violenza, la consapevolezza di non essere solo nella sua lotta è fonte di conforto e di
incoraggiamento.
Questo riafferma la nostra umanità di fronte alla disumanizzazione e offre un barlume di speranza per un futuro libero dall’oppressione.

Come psichiatra, io credo nel potere curativo della solidarietà. I suoi benefici sono reciproci,
arricchendo sia chi dà sia chi riceve.
Solidarizzando con i palestinesi gli studenti e le studentesse universitari e gli attivisti non soltanto difendono la giustizia, ma si impegnano allo stesso tempo in una guarigione collettiva dal senso di colpa e dall’impotenza legate al trauma vicario [inteso come esposizione indiretta a un evento traumatico che colpisce altri.
Le loro azioni incarnano i principi di empatia, di compassione e di riconoscimento che sono
essenziali per la costruzione di un mondo più giusto e pacifico. Spero che la loro solidarietà
continui a svilupparsi, al di là delle frontiere e delle barriere, fino al giorno in cui la Palestina sarà libera e la giustizia sarà realizzata per tutti.

30 aprile 2024, pubblicato su www.chroniquepalestine.com in inglese e in francese
Trad. it. dal fr. di Maria Rita Prette (Sensibili alle foglie).

Por una red de resistencia internacional

El 24 de marzo realizamos un encuentro internacional donde diferentes organizaciones políticas, individuos y miembros de comunidades de diferentes partes del mundo se reunieron para compartir experiencias y reflexiones sobre lo que significa cuidar a las personas y comunidades en contextos de guerra, conflicto y violencia política.

Nos gustaría agradecer a todos por su esfuerzo, generosidad y tiempo para este proyecto colectivo e internacional: Fikret Çalağan de Ata Soyer Sağlık ve Politika Okulu, Davide Grasso de Italia, Ian Parker y Luke Manzarpour de la Red Clinic en el Reino Unido, Samah Jabr de Palestina, Mariela Rodríguez de Cuba, Graciela Painelaf de Wallmapu, Comité Cerezo de México, Pedro Madero y Beto Paredes de la comunidad de Santa María Ostula en Michoacán.

Leggi tutto “Por una red de resistencia internacional”

For a network of international resistance

On March 24th, we held an international meeting where different political organisations, individuals and community members from different parts of the world came together to share experiences and reflections on what it means to care for people and communities in contexts of war, conflict and political violence.

We would like to thank everyone for their effort, generosity and time for this collective and international project: Fikret Çalağan from Ata Soyer Sağlık ve Politika Okulu, Davide Grasso, Ian Parker and Luke Manzarpour from the Red Clinic in UK, Samah Jabr from Palestine, Mariela Rodriguez from Cuba, Graciela Painelaf from Wallmapu, Comité Cerezo from Mexico, Pedro Madero and Beto Paredes from the Santa Maria Ostula community in Michoacán.

Leggi tutto “For a network of international resistance”

Per una rete internazionale delle lotte

Il 24 marzo abbiamo dato vita a un incontro internazionale che ha visto diverse organizzazioni politiche, persone e membri di comunità provenienti da diverse parti del mondo riunirsi e condividere esperienze e riflessioni su cosa significhi prendersi cura delle persone e delle comunità in contesti di guerra, conflitti e violenza politica.

Vogliamo ringraziare tutt* per lo sforzo, la generosità e il tempo che hanno dedicato a questo progetto collettivo e internazionale: Fikret Çalağan della Ata Soyer Sağlık ve Politika Okulu, Davide Grasso, Ian Parker e Luke Manzarpour della Red Clinic, Samah Jabr dalla Palestina, Mariela Rodriguez da Cuba, Graciela Painelaf dal Wallmapu, il Comité Cerezo dal Messico, Pedro Madero e Beto Paredes della comunità di Santa Maria Ostula di Michoacán.

Leggi tutto “Per una rete internazionale delle lotte”