Contagio, oltre il contatto

Come descritto nel Resoconto onirico, Contatto 23 è stato un festival e una festa, una catarsi liberatoria in tempi di catastrofi, lutti e disperazione. La nostra medicina contro la solitudine. Abbiamo ritrovato il contatto umano dopo l’isolamento sociale, abbiamo riso, ballato, mangiato, pianto e ascoltato collettivamente, siamo uscitə dalla nostra depressione e ansia individuale cercando un momento di estasi collettiva attraverso l’arte, la spiritualità, la musica, l’umorismo, le sostanze, la cura e l’affetto. Contatto 23 ci ha dato anche la possibilità di scambiare idee ed esperienze riguardo alla nostra salute mentale, al nostro benessere e alla possibilità di vivere una vita piena e dignitosa in linea con le riflessioni che lanciammo nella chiamata a Convergere per una salute pubblica, universale e comunitaria. Molte discussioni sono state attraversate da disaccordi comuni, dicotomie che hanno tagliato trasversalmente i tavoli in cui abbiamo dialogato di contenzione, ecologia, scuola, genere, sostanze, spazi urbani, migrazioni e conflitti. La multidisciplinarietà fa parte del nostro modello di supporto integrale e del nostro posizionamento politico conflittuale e opposto alla frammentazione del sapere, delle identità e all’alienazione della vita. 

L’asse di discussione più frequente, quasi onnipresente durante le 5 giornate del festival, è stata la riflessione attorno alla diagnosi. Da una parte è stata messa in evidenza la problematicità delle diagnosi psichiatriche che generano uno stigma e una riduzione dell’essere umano a un codice sul quale solo il professionista specializzato è legittimato a prendere decisioni. Come ci fa notare Chiara Gazzola, autrice di Divieto d’Infanzia, diagnosi come il disturbo del deficit di attenzione e iperattività (ADHD) producono una medicalizzazione fin dalla tenera età dellə bambinə e la creazione di uno stigma che si riproduce fino all’età adulta sia da parte delle istituzioni sia dalla stessa persona che introietta l’etichetta “deviante”. D’altro canto, la testimonianza di Famiglie in Rete ci fa capire come la diagnosi di disturbo borderline di personalità aiuta i familiari a inquadrare e comprendere i comportamenti delle persone diagnosticate, permette di modificare, attraverso la psico-educazione, il loro modo di gestire le crisi senza ricorrere all’intervento delle forze dell’ordine e orienta il trattamento verso la psicoterapia escludendo la somministrazione di psicofarmaci. 

Come ci ricorda il collettivo di filosfə Ippolita, ragionare in termini astratti e dicotomici sulla diagnosi, parlando cioè di “diagnosi sì” o “diagnosi no”, è una polarizzazione ormai superata, oltre che inutile. La diagnosi è un modo di interpretare il mondo, e quindi di produrre sapere, più che negarlo o difenderlo, vale la pena ricostruire il contesto storico e culturale in cui le diagnosi si costruiscono e le istituzioni che le usano. In ambito della salute mentale, per esempio, il DSM è un testo scritto dall’APA, l’Associazione Americana (sic!) di Psichiatri. È espressione quindi, innanzitutto, del contesto culturale statunitense ed è indivisibile dal sistema di produzione capitalista e dalle politiche imperialiste che modellano la sua ideologia. Il DSM si presenta come un manuale statistico che dietro la maschera di una presunta neutralità epistemologica promuove una concezione della salute mentale strettamente legata alla funzionalità e produttività dell’individuo. 

Inoltre, gli strumenti diagnostici vengono utilizzati all’interno di istituzioni che non sono neutrali, ma anzi rispondono a mandati specifici di cura, sorveglianza, punizione e, sempre di più, gestione delle risorse (anche umane) orientata al profitto. Si veda per esempio il caso di Stella Maris, un ospedale di alta specializzazione per la neuropsichiatria dell’infanzia e l’adolescenza in cui un’inchiesta della Procura di Pisa ha registrato 208 episodi di violenza verso gli ospiti in meno di 4 mesi. Un clima di sopraffazione generale che viene definito “una lunga tradizione di abuso e violenza da parte degli operatori radicata negli anni”. Il collettivo Antonin Artaud usa la metafora del Sistema delle Porte Girevoli per spiegare l’interconnessione delle istituzioni ospedaliere, carcerarie e migratorie che creano un circuito (o campo) disumanizzante da cui è quasi impossibile uscire. È emblematico il caso di Abdel Latif che è entrato nel circuito delle istituzioni totali già sulla nave trattenuta in quarantena prima di raggiungere la costa italiana, per poi passare per la reclusione amministrativa nel CPR di Ponte Galera dove gli viene somministrata una terapia farmacologica per poi morire nell’ospedale San Camillo di Roma nel letto di contenzione del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Un altro caso citato è quello di Moussa Balde, ex ospite del CPR di Torino, oggi chiuso dopo una rivolta dei detenuti che gli hanno dato fuoco, per la cui morte sono stati indagati un medico e 5 poliziotti accusati di omicidio colposo, sequestro di persona e falso. Nell’ex Cpr di Torino la Procura ha identificato l’Ospedaletto, un reparto medico interno che veniva usato per l’isolamento sanitario, una pratica punitiva che in alcuni casi superava i 100 giorni di reclusione. Crediamo che la comprensione del “circuito totalitario” delle istituzioni mediche, carcerarie e migratorie, e la sua interconnessione, possa aiutarci a fortificare un campo altrettanto interconnesso e integrato di forze di resistenza per l’abbattimento delle mura istituzionali. 

La riflessione sulle sostanze psichedeliche e psicoattive ci aiuta a precisare meglio una questione di metodo. La stessa sostanza, come si è ripetuto più volte, può essere sia farmaco che droga. Ci può aiutare a uscire dall’alienazione individualista e metterci in connessione con altri esseri, umani e non, con l’ecosistema, la spiritualità e altri modi di pensare e sentire il mondo. Così come ci può aiutare a sopportare i ritmi di lavoro estenuanti, alienarci dalla relazione con l’altro e rinchiuderci in una logica di consumo, abuso e dipendenza autodistruttiva. Non ha senso emettere un verdetto su una sostanza in sé, come se la sua composizione chimica o biologica racchiudesse un’essenza positiva o negativa a prescindere, la sua qualità e quantità va sempre triangolata con il set (lo stato emotivo ed esistenziale interiore) e il setting (il contesto sociale in cui viene assunta). Lo stesso vale per gli psicofarmaci, come scrive il gruppo di sostegno psicologico del Sindacato della Montagna del Limousin Psy-Psy, per quanto sia importante promuovere forme di cura tradizionale con le piante naturali “non abbiamo un’alternativa totale alla chimica”. La molecola chimica, scrivono, in casi di emergenza, e se ben utilizzata, può dare qualche settimana di tregua. 

Trasformare il setting, e non solo agire sul set individuale e somministrare sostanze, è una delle proposte sorte in ambito educativo. Per esempio, una diagnosi di disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) permette di avere accesso a un sostegno scolastico, a materiali didattici alternativi e a un progetto educativo individualizzato. Oltre ad aiutare lə bambinə individualmente, e rischiare di riprodurre lo stigma di una disabilità svalutante, andrebbe messo in discussione l’intero sistema educativo basato sulla valutazione individuale, la competizione, la standardizzazione dei programmi e la logica meritocratica che riproduce le diseguaglianze. A questo si aggiunge un modello di gestione aziendale sempre più repressivo che limita la socialità dellə studentə e la loro partecipazione nella gestione scolastica. 

Se la diagnosi da strumento di cura e dialogo con il mondo diventa il fine ultimo allora si perde la possibilità di trasformare il setting, le istituzioni e il contesto sociale. Se, per esempio, l’ansia, le fobie o il trauma generati dal cambiamento climatico vengono trattati esclusivamente come patologie individuali, non ci sarà spazio per attaccare le cause radicali di tali sintomi. Le Mamme NoPfas e le ribellə di Ultima Generazione, Fridays For Future e Extiction Rebellion ci hanno spiegato come l’attivismo, la difesa del territorio e la disobbedienza civile siano in grado di trasformare i vissuti di frustrazione, senso di colpa e disperazione in movimenti di resistenza. Promuovere modelli di educazione ambientale come la Scuola nel Bosco, stimolare la speranza attiva e fortificare le reti locali di difesa e cura del territorio ci possono aiutare a gestire il trauma della catastrofe climatica evitando il senso di impotenza e la negazione. Si tratta di superare la dissonanza cognitiva, il gap tra i nostri valori e le nostre azioni, modificando queste ultime invece che i primi. 

L’importanza del contesto è centrale anche nella testimonianza di Samah Jabr, psichiatra palestinese responsabile dei servizi di salute mentale in Cisgiordania e Gaza. Nel suo libro Sumud, presenta il concetto che da titolo al testo e che racchiude un’attitudine resiliente e allo stesso tempo resistente che caratterizza la cultura palestinese. Per Samah, il sumud è un elemento imprescindibile per promuovere la salute mentale del popolo palestinese assediato dai bombardamenti e da un sistema di apartheid. L’invito a complementare la resilienza con la resistenza è stato anche il focus dell’invito mandato dalla Società Psicanalitica Italiana (SPI) durante la prima edizione di Contatto nel 2022. Il passaggio all’azione, molto spesso patologizzato in ambito clinico, è quello che abbiamo auspicato nell’intervento di apertura di Milano Fa Male. Crediamo che le pratiche, gli agiti, siano un modo di uscire dall’impasse e dalla rimuginazione sul passato in cui ci troviamo bloccati sia come soggetti che come organizzazioni sociali. L’azione deve essere il prodotto di un lavoro di presa di coscienza della storia individuale e collettiva, per non ripetere gli schemi comportamentali fallimentari e non riprodurre il trauma in modo incosciente. 

Il mutualismo, un modello di organizzazione basato sulle pratiche, sembra essere il processo politico più diffuso con cui si riesce ad articolare in modo pragmatico un ampio ventaglio di organizzazioni per invertire il processo di frammentazione sociale e chiusura narcisistica dei collettivi. Nella costruzione di reti mutualistiche nel campo della salute ci si trova spesso di fronte all’esigenza di posizionarsi rispetto alle istituzioni pubbliche. Ancora una volta, viene messa in luce l’inadeguatezza degli approcci binari del “dentro o fuori” le istituzioni. Da un lato c’è l’esigenza di difendere, e ricostruire, il Sistema Sanitario Nazionale, la medicina territoriale, la prevenzione, l’accesso universale alle cure mediche e i diritti di chi ci lavora. D’altra parte, emerge a più riprese l’urgenza di superare i modelli assistenzialisti, autoritari e individualizzanti del servizio pubblico. Ci si chiede come unire queste istanze ed evitare che la sperimentazione di nuovi modelli di cura vengano risucchiate interamente dal privato sociale e dal terzo settore. L’esperienza della rete degli ambulatori popolari di Palermo può aiutarci a trovare una sintesi costruttiva. L’autogestione di un hub vaccinale durante la pandemia, l’ambulatorio ginecologico gestito da Non Una Di Meno Palermo, i progetti di sport e salute promossi dalle palestre popolari e la partecipazione delle comunità di abitanti hanno permesso di ampliare il diritto alla salute e di sperimentare forme più umane di relazione tra operatorə e utentə e un modello di cura non mercificato. Al mutualismo viene proposto di affiancare l’attività di orientamento e gli sportelli di vertenza per alimentare la presa di coscienza di utentə e operatorə e fomentare il conflitto con le istituzioni. Il mutualismo non è l’obiettivo ma il processo con il quale trasformare la società e migliorare la nostra salute.

Per evitare la cooptazione istituzionale si evidenzia l’importanza di valorizzare le pratiche informali costruite in anni di esperienza negli spazi autogestiti. Con il cosiddetto Rinascimento Psichedelico vi è il vantaggio di muoversi verso la depenalizzazione di alcune sostanze ma anche il rischio di mercificarne l’assunzione, depoliticizzarla proponendo un setting asettico e limitarne l’uso in base a criteri psicodiagnostici o di classe. Recuperare l’esperienza delle feste autogestite significa, per esempio, non focalizzarsi esclusivamente sulla riduzione del danno ma cercare di aumentare i benefici delle sostanze psichedeliche in un’ottica di promozione del benessere collettivo. Invece di modificare i nostri modelli organizzativi e di lavoro per compiere i requisiti istituzionali è emersa in vari ambiti l’esigenza di intervenire nei luoghi di formazione professionale per fomentare modelli di relazione più orizzontali, sottrarsi dal riprodurre pratiche di contenzione e abusi ai danni di utenti e valorizzare i saperi informali e le esperienze di vita. In questo senso le lotte dei movimenti trans sono una fonte di ispirazione in quanto sono riusciti a stimolare una continua evoluzione dell’approccio medico rispetto all’affermazione di genere grazie alle pratiche di cura comunitarie, alle mobilitazioni, i riot urbani e la produzione di sapere fuori dall’accademia. Come ricostruiamo in Dove finisce l’identità e inizia la medicina le lotte dal basso dei movimenti queer hanno permesso, per esempio, la diffusione del modello del consenso informato che permette l’autodeterminazione delle persone fuori dalle logiche burocratiche e promuove la consapevolezza di rischi e benefici dei trattamenti. Come ci spiega il Movimento Identità Trans (MIT), la rivendicazione dell’identità trans non è un fine in sé, ma uno strumento di lotta: “il grimaldello nel sistema capitalista” che nomina ciò che viene negato e mette in discussione le logiche binarie, quantitative e patriarcali su cui poggia la sua riproduzione. La Scuola Popolare di Psichiatria ci presenta un ulteriore esempio di ribaltamento delle logiche di produzione del sapere medico. Il progetto popolare promuove infatti l’incontro tra persone che hanno vissuto con il proprio corpo le istituzioni psichiatriche, le diagnosi o le terapie farmacologiche e lə professionistə medichə per creare un sapere condiviso a partire dall’esperienza concreta. 

Alla domanda “cosa c’è oltre alla diagnosi” abbiamo cercato di rispondere riscattando l’importanza dell’ascolto, il contatto umano, la relazione e le pratiche dialogiche. Per ricostruire una soggettività collettiva, una coscienza di classe ed ecologica, crediamo sia importante tutelare la partecipazione e la molteplicità di prospettive e pratiche. Un bosco selvaggio, con la sua diversità biologica, è più resistente alle catastrofi di una monocultura intensiva, la quale a lungo termine genera siccità. È fondamentale evitare le derive egemoniche che indeboliscono le reti organizzative e hanno prodotto la desertificazione ideologica in cui viviamo. Crediamo che sia importante prenderci cura anche delle dinamiche relazionali interne ai collettivi e ai circuiti mutualistici, dando spazio ai vissuti personali, ai diversi modi di vivere, percepire, esprimersi e sentire il mondo oltre il paradigma neuro-normativo. 

L’artista e attivista Hamja Ahsan ci invita a costruire spazi di partecipazione per lə militanti più timidə che rischiano di rimanere nell’ombra del carisma e l’estroversione di chi detiene la leadership e comunica con il pubblico e i mass media. Il Congresso dei Popoli Democratici curdo utilizza l’autoformazione come pratica di allenamento per la presa di parola pubblica, stimolando lə militanti a presentare dei contributi in un setting strutturato dove limitare l’ansia e la paura di esporsi di fronte a una moltitudine. Una leadership più partecipata possibile rafforza i collettivi ed è anche una strategia di resistenza di fronte alla persecuzione giudiziaria e alla violenza politica. La nostra esperienza quotidiana ci insegna che i processi organizzativi orizzontali devono includere le tecniche di facilitazione dei gruppi e una cura costante della sfera emozionale di chi vi partecipa. Spesso le dinamiche di potere implicite, le emozioni non verbalizzate e il malessere proiettato sul gruppo finiscono per distruggere il tessuto sociale e di conseguenza il progetto politico. È di primaria importanza sviluppare pratiche che ci aiutino a prendere coscienza di tali processi per evitare di riprodurli involontariamente. 

Le prime due edizioni di Contatto si sono tenute a Milano, il luogo in cui ha mosso i primi passi la Brigata Basaglia nella primavera del 2020. La città di Milano rappresenta l’avamposto del processo di esclusione capitalista, forse il luogo dove questo processo si presenta in modo più estremo e accelerato rispetto al resto del Paese. Lo sviluppo della finanza, il marketing, il turismo e la speculazione immobiliare trovano la loro controparte nella persecuzione della povertà e della dissidenza politica. La violenza del “modello Milano” si sostiene con un pervasivo lavoro ideologico che riesce a posizionare una città carissima e inquinatissima in cima ai ranking della qualità della vita e come un esempio di integrazione, ecologia e diversità. Il paradigma degrado/decoro è diventato egemonico e ha convinto gran parte della popolazione che per uscire dalla miseria, dal controllo delle reti criminali e dalla mancanza di servizi l’unica via percorribile sia abbracciare la gentrificazione, la militarizzazione e l’espulsione dei settori popolari. Il nostro sforzo consiste nel portare alla luce le radici marcescenti e insostenibili di questo modello che ci fa ammalare sia fisicamente che emozionalmente come raccontano Annia Paculla e Isa Zaya nella fanzine La ragnatela urbana. Dobbiamo toglierci le lenti ideologiche della riqualificazione per pochə e imparare dalle sperimentazioni urbane di altri territori e latitudini. Uscire dal modello Milano per capire come disinnescarlo. 

Contatto ha comportato una complessità logistica che ha imposto tempi di discussione serrati. La riflessione sulle pratiche é solo all’inizio e a Contatto abbiamo gettato le basi per  trasformarla in nuove proposte di azioni concrete, nella presa di decisioni collettive e nella costruzione di legami più profondi. Sentiamo l’esigenza di costruire momenti di ascolto, contatto e dialogo più costanti durante l’anno e con tempistiche più flessibili. Desideriamo costruire una quotidianità resistente e liberatoria. Vogliamo andare oltre il contatto estemporaneo e contagiarci con le idee e pratiche di altri collettivi e contagiare reciprocamente diverse organizzazioni con il nostro metodo e le nostre riflessioni. In parte lo abbiamo già fatto in questi anni creando sportelli ad hoc, gruppi di ascolto e formazione per il movimento studentesco, le lotte operaie, lə volontariə impegnatə nell’emergenza e gli spazi sociali con cui collaboriamo. Creare comunità forti e coscienti è un lavoro di prevenzione per affrontare le crisi e l’emergenza in modo solidale e politico, in sintonia con quanto scriviamo in Alcune considerazioni sui terremoti che hanno colpito il sud est della Turchia e il nord della Siria.

Esporsi al contagio della relazione significa accettare che le nostre identità politiche non sono chiuse su sé stesse, ma anzi hanno bisogno di reti e alleanze per esistere, a costo di mutare. Come testimonia il gruppo Psy-Psy, concepire uno spazio safe perchè partecipato da persone che la pensano come noi è pericoloso: “Credo piuttosto nel fatto che a un certo punto sia più sicuro trovarsi in un contesto con persone provenienti da altri ambienti, che vedono il mondo in modo diverso”. Non vogliamo attivare dinamiche autoimmuni, diventare impermeabili con il rischio di cercare il nemico al nostro interno, ma rafforzare le nostre difese aprendoci all’esterno, accettando un certo grado di vulnerabilità attraverso la cura reciproca e collettiva, con tatto, con l’autoformazione, la facilitazione e il conflitto superando i confini della coscienza individuale, delle discipline accademiche e le frontiere geografiche. Come ci racconta Lolita Chavez, portavoce del Consiglio dei Popoli Maya Ki’che e sanatrice ancestrale, i traumi della violenza politica si possono curare con la solidarietà e la reciprocità: “le nostre multiple oppressioni possono curarsi quando ci intrecciamo e intessiamo legami per la liberazione dei territori, delle comunità e del nostro proprio essere”